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Dio è morto, la religione no. Se si uccide in nome della propria fede, non è Dio che si sta cercando, ma esclusivamente la propria affermazione terrena.
La religione ha finito per offuscare la politica, che certo non naviga in buone acque. La situazione è destinata però a peggiorare se la politica continua a confrontarsi con la questione religiosa, anziché con il proprio compito: governare per il benessere, la sicurezza e la felicità di tutte le persone, a prescindere dal loro credo religioso, dalla loro appartenenza etnica, dal colore della loro pelle. Perché delle persone che provengono dalle coste del Nord Africa diciamo “i musulmani” e dei tedeschi, inglesi, francesi, italiani non diciamo “i cattolici” o “i protestanti”? Dietro l’etichetta religiosa, che ne sancisce l’alterità culturale, soccombono le persone, l’umanità con i suoi bisogni e i suoi diritti, che non vengono meno né perché sei immigrato, né perché sei clandestino, neppure se delinqui. Credere ancora alle guerre di religione che mai sono state tali, fa nascere il sospetto che si vogliano confondere le carte, soprattutto sul tavolo della giustizia umana, sul tavolo della condivisione comune dei beni della Terra.

La questione dell’integrazione non tanto delle culture, ma nei diritti, nella condivisione della ricchezza, resta la grande questione con cui l’umanità, all’inizio di questo millennio, sta imparando a dover fare i conti, pagando prezzi altissimi. È sufficiente guardare all’America di Obama, dove l’integrazione ha fallito e la questione razziale resta tutta piena e intera. In una certa epoca, i marxisti americani dicevano che i neri fossero vittime non perché erano neri, ma in quanto proletari, e che bisognasse difenderli in quanto tali. Forse era una posizione eccessivamente marxista, ma certamente poneva una questione dirimente: prima di ogni altra cosa è necessario che tutti si sia posti nelle stesse condizioni materiali, che tutti si condivida il medesimo diritto al benessere e alla felicità. Se la politica non è in grado di garantire questo, è evidente che finiscono per prevalere le specifiche identità e appartenenze, gli interessi degli uni contro quelli degli altri. Prevale cioè la questione culturale e religiosa su quella socio-economica, anche perché su questo versante chi sta bene difende le proprie posizioni e non è disposto a cedere nulla senza averne un utile di ritorno.
Tutto questo dovrebbe indurci a considerare quanto viviamo un tempo che, tra i frutti del progresso, ne ha prodotto uno molto importante, forse inaspettato e certamente ai più poco gradito: un senso profondo di ingiustizia. La consapevolezza sempre più diffusa di essere vittime dell’ingiustizia. L’ingiustizia subita nelle periferie, l’ingiustizia nei confronti dei palestinesi, i due pesi e misure dell’Occidente nei confronti del mondo arabo, il persistere della schiavitù, dello sfruttamento sessuale di donne e bambine, dello sfruttamento di infanzie condannate al lavoro, come alla morte per fame. Milioni di persone sono vittime e hanno tutto il diritto di considerarsi come tali. È questa consapevolezza che oggi muove per il mondo imponenti flussi di soggetti coscienti della loro storia, dei loro diritti, portatori di un loro progetto di vita.

Se le religioni hanno una qualche ragione di essere, questo mondo che le tradisce ogni giorno, ma che per esse pretende di combattere, non può che apparire del tutto impazzito.
Dovremmo quindi reimparare a guardare alle cose come stanno, eliminando qualunque designazione attraverso la religione: se per qualcuno era l’oppio dei popoli, oggi rischia di divenire l’oppio delle nostre menti.
Non abbiamo bisogno degli appelli del Pontefice a condividere il nostro benessere con quanti sono meno fortunati di noi, intanto perché la loro scarsa fortuna è anche responsabilità nostra, ma soprattutto perché la questione prima di essere materia di coscienza religiosa è questione squisitamente politica. È sulla politica che ci dobbiamo interrogare e sulla sua assoluta inadeguatezza e impreparazione di fronte alle nuove sfide, che non sono più solo quelle della difesa della natura e del pianeta, ma della convivenza umana su di esso. Ben altra partita.
Pare che Dio sia morto quando sono morte le ideologie. Per me si è trattato di una fortuna: pensavo che questo avrebbe liberato l’intelligenza umana, anziché impigrirla. Credo che il neo-umanesimo a cui l’intelligenza umana oggi è chiamata consista nell’affrontare le identità multiple da cui la Terra è abitata, modificando il nostro sguardo. Spostandolo sull’ingiustizia che ancora è la condizione umana di miliardi di persone. Questo è il vero terrorismo che alimenta ogni altro terrorismo. Se non saremo in grado di affrontare attraverso la politica questa, che è la vera questione del terzo millennio, finirà per prevalere il rifugio nella religione, attraverso la sua strumentalizzazione in chiave politica per fare dei diseredati della Terra la massa d’urto che dietro il fanatismo promette un futuro più tragico e più ingiusto del presente.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.


Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it

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