L’INCHIESTA
Partiti & partecipazione:
la logica del ‘do ut des’
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SEGUE – La partecipazione è questione connessa a uno slancio che proietta l’individuo in un movimento, o comunque in una dimensione collettiva; rimanda al senso di responsabilità soggettivo e presuppone la coscienza di un sé come parte di una totalità, implica la volontà di essere protagonisti attivi nello spazio pubblico, luogo del confronto e delle scelte. Si misura quindi in prima istanza attraverso la mobilitazione e l’impegno che ciascuno, giorno per giorno, profonde nel sociale, non solo e non necessariamente nella politica e nei partiti (oggi, poi, meno che in passato).
Ma la partecipazione si realizza, concretamente, pure attraverso l’esercizio del diritto al voto. Anche l’indice di affluenza alle urne è, dunque, un buon termometro. E la febbre è alta, rivelatrice di una patologia grave.
La percentuale dei votanti in Italia è calata dal 92,2% delle prime elezioni libere, nel 1948 (voto per la Camera) al 75,2 delle ultime politiche 2013. Sino alla fine degli anni Settanta è oscillata fra il 92 e il 94% (picco più alto il 93,8 del 1953), per scendere a un – comunque ragguardevole – 90,6% del 1979. Nel trentennio successivo si è scivolati progressivamente dal 88% del ’83, al 80,5 del 2008. Il punto più basso invece è quello, già menzionato, del 2013, con il 75,2%. E nelle consultazioni amministrative la situazione peggiora.
Fanno impressione, fra gli altri, i dati relativi agli ‘astenuti’ (schede bianche e nulle) che, sino al 1976, si mantengono fra gli 874mila del 1958 e il milione 211mila del 1968. Ma nel 1979 già superano il milione e mezzo (1.571.610) e nel 1983 sono 2.282.177. Il picco in salita si ha nel 2001, con oltre 2milioni 962mila.
Da notare che nel 1993 decade l’obbligo del voto: ciò che da un lato rappresentava un diritto, fino ad allora era stato contestualmente anche un dovere, la cui infrazione era sanzionata per legge, con annotazione ai trasgressori. La modifica della legge avrebbe verosimilmente potuto determinare, come conseguenza, che coloro che sino ad allora erano andati alle urne solo per adempiere al dovere (scegliendo verosimilmente scheda bianca o nulla), in assenza dell’obbligo se ne restassero a casa, alimentando la schiera dei non votanti. Invece, nel ’94 si ha solo un lieve calo nel numero dei votanti, pari all’un per cento dell’elettorato (poco meno di mezzo milione di cittadini) e ancora un aumento di schede bianche e nulla, 600mila in più rispetto al ’92.
Un sorprendete e inspiegabile calo delle schede non valide (bianche e nulle) si registra invece nel 2006, quando il dato scende a un milione 145mila, con un calo addirittura di un milione e 800 mila dal 2001, l’anno del massimo picco, allorquando bianche e nulle furono quasi tre milioni.
Un tentativo di interpretazione lo fornisce il giornalista Enrico Deaglio con il suo docufilm, ‘Uccidete la democrazia’, in cui ipotizza un tentativo di ‘golpe elettorale’ ai danni del candidato premier Romano Prodi (che vinse, come si ricorderà, con lo scarto minimo dei famigerati 25mila voti, dovuti alle preferenze accordate dagli italiani all’estero), consumato, in ipotesi, attraverso un meccanismo di broglio informatico che avrebbe tradotto le schede bianche in voti al Popolo delle libertà. Ma, alla luce degli esiti del 2008 e del 2013 in cui il numero di bianche e nulle è oscillato fra il milione e 265mila delle più recenti consultazioni e il milione 417mila delle precedenti, la tesi vacilla.
Resta comunque l’evidenza di un tragico calo di affluenza alle urne: di circa 47 milioni di aventi diritto in Italia (tre milioni e mezzo sono i connazionali residenti all’estero) circa 13 milioni non votano, oppure nell’urna inseriscono scheda bianca o nulla.
Nel frattempo i partiti hanno preso ad assomigliare sempre più agli autobus: si sale o si scende secondo convenienza. Un tempo, ricorda un vecchio militante, si aderiva per dare qualcosa al partito. Oggi invece si sceglie il partito in funzione di ciò che lui può dare a me.
Così si giustificano i frequenti cambi di casacca, così si spiegano le stizzite uscite di scena, spesso goffamente mascherate da ragioni di principio.
Gli esempi si sprecano e sono sotto gli occhi di tutti. Per citare un paio di casi recenti e a noi vicini, che sollevano il sospetto di decisioni non proprio disinteressate, ricordiamo come l’ex assessore Luciano Masieri, dopo cinque anni da consigliere comunale e altrettanti da assessore, se ne sia andato piccato, causa la mancata riconferma nel ruolo in Giunta e non abbia rinnova la tessera del Pd, dichiarando alla Nuova Ferrara che “la politica dovrebbe essere servizio, mentre nel Pd si perseguono più gli interessi personali dei singoli che quelli generali del partito”… Però questo l’afferma quando è lui personalmente ad essere escluso.
Qualcosa di analogo sostanzialmente succede in questi giorni con Angelo Storari, del Movimento 5 stelle: viene escluso dalle liste dei candidati per il Consiglio regionale e lui s’indigna e sbatte la porta. Ma, spiega, lo fa perché… ‘c’è del marcio in Danimarca’: “Qualche giorno fa – scrive Storari, che fu fra i fondatori dei Grilli estensi, in una lettera aperta – avevo inviato la mia candidatura online. Oggi scopro che la mia candidatura non è presente”. Assicura di non volerne fare “un fatto personale” ma, spiega, “ciò che trovo inaccettabile e che mi fa arrivare oggi a decidere di chiudere definitivamente la mia avventura politica, è il fatto che alcune piccole lobbies, interne all’M5s, potremmo definirle cricche, con veti e controveti, decidono le sorti di questo o quello. Le antipatie personali, le accuse di protagonismo, ad esempio verso il sottoscritto, erano e restano motivate da una sola cosa, invidia e gelosie». Ecco, dunque, il capo d’imputazione: invidie, gelosie… Che però inducono l’indignato di turno a trarne le conseguenze solo quando ne subisce le conseguenze.
2. CONTINUA
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Sergio Gessi
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