L’INCHIESTA
In carcere. Viale K: “Il reinserimento umanizza la pena e fa risparmiare lo Stato”
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4.SEGUE – La nostra inchiesta sta mettendo in luce le opportunità di lavoro per i detenuti, un’occasione di impegno concreto per chi è recluso e una risorsa per l’intera comunità. In questa quarta parte, parliamo di questi temi con don Domenico Bedin e Raffaele Rinaldi, rispettivamente presidente e direttore dell’associazione Viale K, realtà nata nel 1991 per contrastare le forme di povertà estrema e di emarginazione sociale. La loro attenzione si rivolge a tutte le persone emarginate, agli immigrati appena arrivati, ai detenuti in misura alternativa al carcere e a tutte quelle persone che versano in situazioni di povertà estrema. Sul loro sito si legge: “Intendiamo adoperarci affinché ciascun uomo veda rispettato il ‘diritto al futuro’ e cioè alla sussistenza, alla salute, al lavoro, all’istruzione, all’informazione”.
Don Domenico, nella scorsa puntata dell’inchiesta [vedi] abbiamo fatto un focus sul progetto regionale che state realizzando ultimamente in collaborazione con la Coop estense e che prevede il reinserimento sociale di persone in esecuzione di pena attraverso l’attività orticola. Altre novità?
A dire il vero sì. Il progetto avviato con la Coop estense non è l’ultimo tra quelli che abbiamo intrapreso. Come Viale K da qualche mese abbiamo avviato, unici a Ferrara, un’esperienza in linea con l’art. 21 per l’inserimento di un detenuto con misura alternativa per l’attività della nostra mensa per i poveri (via Pesci, zona Rivana). Si tratta di un accordo tra l’associazione e la casa circondariale di Ferrara: il detenuto viene accompagnato alla mensa, lavora dalle 8 alle 15, poi viene riportato in carcere.
Ci sono altri enti o cooperative coinvolti in quest’esperienza?
No, non sono coinvolti altri soggetti, questo è un semplice accordo tra la direzione del carcere e l’associazione. Anzi, a questo proposito ci tengo a dire che le misure alternative come da art. 21 andrebbero incentivate perché sono di semplice attivazione, è solo una questione di volontà: concedere i permessi è a discrezione della direzione e la selezione viene effettuata in accordo con gli operatori del carcere stesso, una volta definita l’attività con l’associazione di riferimento il gioco è fatto. Si potrebbe fare molto di più, anche a partire da oggi, ma purtroppo si fatica ad ottenere i permessi dalle direzioni perché ancora non c’è la mentalità giusta, si ha paura del nuovo, si ha paura di osare.
Altre esperienze realizzate per garantire un lavoro utile ai detenuti?
Da molti anni, quasi da sempre, abbiamo in carico diversi “affidamenti in prova ai servizi sociali” come misura alternativa al carcere, ossia persone affidate ai Servizi sociali di grazia e giustizia che risiedono presso le associazioni o presso la propria abitazione, e che possono svolgere attività di volontariato. Nel nostro caso questi affidamenti risiedono presso le nostre comunità e svolgono anche attività di inserimento lavorativo sia all’interno che all’esterno della comunità; prevedono una fase di accoglienza, un periodo di formazione poi l’inserimento lavorativo. Nel periodo 2012-2014, queste esperienze sono rientrate nel progetto “Acero – Accoglienza e lavoro” per percorsi di inclusione lavorativa [vedi]. Il progetto si è appena concluso ma abbiamo buone speranze che venga riattivato. In realtà, per noi non è cambiato nulla, ma rientrare nel progetto regionale significa inserirsi in un contesto più strutturato e condiviso e, cosa non secondaria, ottenere qualche finanziamento.
Per le persone agli arresti domiciliari, invece, le misure sono più restrittive e quindi generalmente sono limitati a svolgere il loro lavoro all’interno delle strutture. In qualche caso possono lavorare all’esterno ma con orari ben prestabiliti.
Stiamo sempre parlando di lavoro volontario vero?
Per i casi appena descritti sì. Noi purtroppo siamo un’associazione e non riusciamo a pagare degli stipendi ma conferiamo piccole borse lavoro o piccoli contributi. Per quanto riguarda invece il lavoro retribuito la Coop. Meeting Point di via smeraldina, che gestisce il ristorante La Casona, ha un inserimento lavorativo. Il prossimo anno se ne prevede di inserire un secondo.
Tra tutte queste attività, a quante persone siete riusciti ad offrire la possibilità di rendersi utili risarcendo in questo modo la comunità? Per ricavare qualche dato ci siamo rivolti a Raffaele Rinaldi, direttore di Viale K.
Tirare fuori dei numeri non è facile perché il turn over è più veloce per i “fine pena”, mentre i tempi sia allungano per gli altri casi. Però stiamo proprio stilando in questi ultimi giorni il report annuale, quindi possiamo dire che ad oggi abbiamo una decina di casi attivi, mentre nell’arco del 2014 siamo arrivati a coinvolgere quasi 30 detenuti.
Tutti coloro che sono stati intervistati nell’ambito dell’inchiesta hanno detto che si potrebbe fare molto di più, che gli enti locali o le stesse direzioni delle carceri non sfruttano le possibilità e le potenzialità create dalle leggi. Tu cosa ne pensi?
Concordo pienamente e aggiungo anche un paio di considerazioni. In primo luogo occorre ricordare che utilizzare le misure alternative costano alla Stato meno della metà rispetto alla detenzione: a fronte di un costo medio di € 116 al giorno per persona, si scende a circa € 40 con progetti di reinserimento. Per dare un dato che descriva le proporzioni nel 2013, il sistema carcerario è costato 2,8 miliardi di euro, all’esecuzione penale esterna sono andati 471,213 euro mentre solo per le attività trattamentali sono stati spesi oltre cinque milioni di euro. Per questo investire diversamente, e di più, sulle misure alternative vuol dire investire sulla persona e dare valore alla Costituzione. Tutto ciò si tradurrebbe in un risparmio “economico” ma soprattutto “sociale” per la collettività, in termini di certezza del “recupero” e di politiche della sicurezza, perché significa abbassare la recidiva, passare dalla giustizia vendicativa alla giustizia riparativa, in due parole umanizzare la pena.
In secondo luogo, e qui apro un tema più ampio ma di fondamentale importanza, il reinserimento di queste persone – anche da un punto di vista culturale e sociale – non deve essere un tema completamente delegato all’Istituzione carceraria, ma deve essere condiviso e agito anche dalla società civile. Non bastano le leggi, i decreti, le circolari ma è necessaria la disponibilità ad accogliere per dare la possibilità di compiere un percorso graduale e responsabile verso il reinserimento nel tessuto sociale. Paradossalmente, pur esistendo strumenti legislativi per l’accesso alle misure alternative, la società civile non risulta pronta. A Ferrara ci sono tantissime associazioni di volontariato (per fortuna) impegnate nei settori più disparati del vivere civile, ma pochissime si interessano e si dedicano a questa fetta di umanità rinchiusa e contenuta ai bordi della nostra città, come un’isola ecologica dove quotidianamente si sversano i “rifiuti umani”. Perché culturalmente siamo portati a identificare la persona con il reato piuttosto che al percorso di recupero in cui è impegnato. E’ soprattutto la politica che deve misurarsi con questa parte di cittadinanza e del suo recupero, ed è proprio una notizia di qualche giorno fa che vede il Comune approvare una Convenzione l’Asp. Centro servizi alla persona e la Casa Circondariale di Ferrara, per favorire l’inserimento di persone detenute, attraverso lavoro gratuito e volontario in progetti di pubblica utilità (art. 21 e sostitutivi pena). Credo che sia la direzione giusta.
CONTINUA
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Sara Cambioli
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