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2. SEGUE – Nel dicembre 2001 si tennero a Roma gli “Stati Generali della Pubblica Istruzione” e in questa occasione si palesarono chiaramente le direttive che la strada dell’istruzione pubblica italiana avrebbe seguito. Il sistema scolastico costava troppo: troppi insegnanti e troppe ore di insegnamento, troppe risorse destinate all’innovazione dei programmi. Abrogata la riforma Berlinguer si riscrisse un’altra riforma, la legge 53, che però di fatto veniva applicata con uno stillicidio di decreti attuativi puntuali. Fu riproposta la separazione tra la scuola elementare di 5 anni e la scuola media rinominata “secondaria di primo grado”, si decretò che l’orientamento alla scelta della secondaria di secondo grado iniziasse già a 13 anni e che l’orario scolastico settimanale fosse ridotto a 27 ore. Mentre dalla fine degli anni 1990 i maestri delle elementari erano 3 per classe, si tornò al maestro unico, definito però “tutor” – che fa più globale – e furono varati nuovi programmi didattici che di fatto diventarono legge, in contraddizione con l’autonomia didattica prevista dalla norma costituzionale.

Inoltre, nel 2005 l’intero sistema della secondaria di secondo grado e il sistema della formazione professionale furono resi di competenza esclusiva delle Regioni e non più dello Stato come sancito dal titolo V della Costituzione. Il decreto legge disegnava un sistema della secondaria superiore imperniato sui licei (artistico, classico, economia, linguistico, musicale coreutico, scientifico, tecnologico e delle scienze umane) teso a creare un sistema “duale” perché l’istruzione tecnica e professionale, insieme con la formazione professionale passavano di fatto alle Regioni, mentre il sistema dei licei rimaneva di competenze dello Stato. L’impianto della riforma Moratti in pratica non riformò nulla, ma delegò gli enti locali alla gestione di quote dell’istruzione pubblica che il governo non sapeva come amministrare, soprattutto a livello di pianificazione economica, e venne profondamente osteggiato dai sindacati, dalla componente studentesca, dal mondo politico che lo giudicavano un salto indietro nel tempo e a sostegno delle scuole private.

La mobilitazione in questa occasione fu forte e decisa: manifestazioni di piazza, scuole e università occupate, assemblee permanenti di tutto il movimento studentesco intorno al quale si condensarono anche le anime della sinistra più giovane e quello che fu definito per comodità “movimento no global”. In molte città le proteste durarono mesi, gli studenti chiedevano di essere ascoltati e non trattati come dei numeri da gestire e a loro si affiancavano insegnanti e presidi. Gli slogan delle manifestazioni anti-riforma sono rimasti impressi negli annali e nella memoria di chi partecipava al movimento. “Moratti devi imparare la lezione, non sai cosa è la pubblica istruzione”, “Moratti Moratti cosa hai combinato, anche l’inglese hai dimezzato”, ”L’istruzione è un diritto non un’occasione di profitto” erano i più amati.
“Quello della protesta contro le iniziative del ministro Maratti fu un periodo molto fecondo per noi. – ha raccontato una insegnante di lettere che ha preferito restare nell’anonimato – I ragazzi erano spinti ad informarsi, a capire, a confrontarsi fra coetanei e con noi adulti, insegnanti e genitori. Quando mi chiamarono al telefono a casa per avvisarmi che avevano occupato la scuola mi preoccupai moltissimo ma, una volta arrivata fuori l’edificio, mi resi conto che i miei studenti, quelli che facevano fatica ad ascoltare le mie lezioni, erano stati capaci di organizzare una scuola nella scuola, completamente gestita dai ragazzi: turni di pulizia, lezioni sperimentali, lezioni aperte… In pochi giorni ci stavano dando un modello empirico di quello che sarebbe dovuta diventare una scuola contemporanea. Avessimo avuto un ministro capace di ascoltare, forse le istanze di quei ragazzi sarebbero potuti diventare ottimi spunti per creare una buona scuola, ma buona veramente, che attrezzasse le generazioni successive alla vita.”.

Tornato al governo il centrosinistra, nel 2006 al ministero dell’Istruzione siede Fioroni. Questi, per spiegare che non aveva i mezzi di scompaginare il sistema dell’istruzione pubblica per rimetterne in piedi uno più sano, disse che si sarebbe servito della “strategia del cacciavite”, ossia che avrebbe aggiustato ciò che nel sistema non andava con piccoli correttivi, per rendere il sistema più efficace e moderno. Fioroni innalzò l’obbligo di istruzione a 16 anni e cercò di stabilire un sistema didattico allineato alle direttive dell’Unione Europea; rilanciò l’istruzione tecnica e l’istruzione professionale, distinguendo chiaramente che allo Stato compete il rilascio dei diplomi, mentre le Regioni devono garantire le qualifiche triennale della formazione professionale e varò nuove indicazioni nazionale per la scuola dell’infanzia e per la primaria, puntando sul concetto di continuità e incentrandole sui traguardi di competenze. A proposito di competenze, nel 2007 vennero inserite fra gli obblighi della scuola le prove Invalsi, un test di esame somministrato a livello nazionale con scopi statistici. Semplificando all’osso, dai risultati delle Invalsi il ministero dovrebbe avere il quadro dell’andamento scolastico del Paese. “Le prove Invalsi sono una truffa, un test per sondare se abbiamo imparato la lezione a memoria – dichiarava al Tg Regionale della Sardegna una studentessa di una scuola tecnica – Sono diventate uno strumento di pressione per studenti e presidi: noi dobbiamo fare bene per far fare bella figura ai prof verso il preside, che a sua volta deve fare buona figura con chi sta sopra di lui. Ma noi che ci ricaviamo? Niente, solo tempo perso”.

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Ingrid Veneroso

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