(pubblicato il 10 ottobre 2015)
C’era una volta “la scuola”, quella che non aveva aggettivi, che significava lezioni, insegnanti e compagni, il bidello, la ricreazione e i compiti in classe. Quella che ti tirava giù dal letto da ottobre a giugno, che diventava argomento di discussione a tavola durante la cena, quella che ti accompagnava in un percorso abbastanza lineare da quando riuscivi a stare nel banchetto tre ore senza fare pipì fino quando riuscivi resistere tre ore senza accenderti neanche una “paglia”.
Pochi lo sanno ma la nostra idea di scuola non è tanto antica: materna, elementari, media (inferiore e superiore) sono state invenzioni del periodo fascista. Per la precisione correva l’anno 1923 quando il filosofo Giovanni Gentile, ministro della Pubblica istruzione del primo governo Mussolini, decretò l’obbligo scolastico fino ai 14 anni: 5 anni di scuola elementare uguale per tutti (preceduta da 3 anni di scuola materna), organizzata in classi omogenee per anno di nascita. Poi la media inferiore, che a secondo dell’indirizzo scelto apriva la strada alle scuole “alte”: il liceo, gli istituti tecnici e magistrali, il conservatorio. “Era sicuramente una scuola di classe – ha raccontato uno degli ex allievi della scuola elementare di Bologna in un documentario prodotto dal Dipartimento di Scienze dell’ Educazione dell’Università di Bologna dal titolo “La scuola elementare durante il fascismo”, del 2010 – che muovendosi dal centro città alla campagna deperiva visibilmente. Pensate che la maggior parte di noi nemmeno parlava italiano ma solo dialetto stretto!”.
Da lì a qui, Ferrara 2015, sono passate le scuole di avviamento professionale (abolite nel ’63 ma che furono la base della creazione di molti campi di eccellenza del nostro artigianato, quello che oggi esportiamo con il blasonato nome di “Made in Italy”), il ’68, l’accesso all’università da qualsiasi scuola superiore e non più solo dal liceo classico, i “decreti delegati” che portarono nelle scuole le rappresentanze di studenti e del personale Ata, il tempo pieno alle elementari e gli insegnanti di sostegno con la legge Falcucci del 1977, i progetti Brocca e Progetto ’92 che cercarono di rinnovare l’impianto didattico della scuola pubblica superiore senza però riuscire a cambiarne la struttura.
Fino alla “Riforma Berlinguer”. Quando la legge fu approvata definitivamente correva il febbraio del 2000: nuovo secolo, nuovo millennio, e l’Ulivo – che nel 1996 aveva vinto alle elezioni battendo quel Berlusconi che, per mettere mano a qualcosa, aveva abolito gli esami di riparazione – voleva rinnovare la scuola pubblica italiana per portarla al pari con le scuole degli altri paesi europei.
In effetti il ministro all’Istruzione Luigi Berlinguer, con alle spalle una commissione “di peso”, avrebbe voluto dare uno scossone al sistema scolastico nel suo complesso. La Riforma prevedeva un riordino dei cicli dell’istruzione in sette anni di ciclo primario (dai 6 ai 13 anni) e 5 per il ciclo secondario (13-18 anni), estendeva l’obbligo scolastico a 15 anni e quello formativo ai 18. Per questo inquadrò il sistema della formazione professionale, della formazione superiore non universitaria, l’ istruzione superiore universitaria e introdusse il concetto di formazione continua. Nel 1° articolo della legge si leggeva anche che “Tutti i giovani hanno diritto all’istruzione e alla formazione fino al diciottesimo anno di età” e che “Il sistema di istruzione e formazione si caratterizza per l’offerta lungo tutto l’arco della vita di percorsi formativi anche individualizzati, che, valorizzando tutte le capacità, consentano alle persone di realizzare in modo consapevole e responsabile il proprio progetto di vita.”, nonché “Lo Stato, le Regioni e gli enti locali, nell’esercizio delle proprie competenze, attuano gli interventi necessari a garantire la frequenza della scuola dell’obbligo.”.
Il passaggio “in corsa” da Berlinguer a Tullio De Mauro sulla sedia da ministro non variò l’impostazione della riforma ma i suoi principi andarono a cozzare con gli interessi dei sindacati, delle amministrazioni e dell’opinione pubblica. Occorre ricordare che nel 1997, con un provvedimento di carattere economico, si era delegata agli istituti l’amministrazione delle scuole, a livello economico e organizzativo: i direttori didattici diventavano manager, con il compito di traghettare di anno in anno le proprie scuole fra conti, supplenze, attività e proposte didattiche da offrire e realizzare con quattro fichi e tre noci gentilmente offerti dal governo. Inoltre Berlinguer aveva messo a punto il famoso “concorsone” per gli insegnanti (una prova basata su quiz e colloquio) con l’obiettivo di riconoscere e incentivare economicamente il lavoro professionale partendo dalla valutazione dell’attività svolta nel lavoro in classe. Su questa iniziativa si coagulò un clima di contrapposizione e di resistenza conservatrice e corporativa di una larga parte dei docenti (di destra quanto di sinistra) che si spostò sull’intero progetto di riforma dei cicli e della stessa autonomia scolastica. E gli studenti? All’epoca erano preoccupati che l’autonomia scolastica potesse creare disparità e diseguaglianze fra scuole e all’interno delle scuole stesse, ma pensavano anche che avrebbero potuto ottenere scuole aperte secondo le esigenze dell’utenza in orari extra curricolari e che magari avrebbero potuto usufruire di progetti innovativi, visto che il nuovo assetto dei cicli di studio avrebbe dovuto portare una ventata di aria fresca nelle aule e fra gli insegnanti. La riforma Berlinguer fu in parte congelata e con il successivo governo Berlusconi, che vide la discesa in campo della ministra Moratti, la scuola italiana fece retrofront.
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Ingrid Veneroso
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