E’ come se la lingua madre fosse diventata una babele e tra umani non ci comprendessimo più. Scompaginati tutti i recinti non riusciamo più a leggere i confini delle nostre dimore che, per ognuno di noi, rappresentano la sicurezza. A catena questo scatena furia e paura nelle persone.
Le accuse che continuamente ci facciamo reciprocamente, in questo mare di incomprensione, è quella di manipolare la realtà. I dati scientifici diventano il perno su cui si basano le narrazioni, e tutti dico tutti, li tirano per la giacchetta, ognuno per darne la interpretazione che vuole. Anche io faccio parte di quelli che li leggono in un certo modo, che li interpretano (perché i dati si interpretano) con le parole che per me descrivono la realtà che vedo fuori e che sento dentro, una realtà che mi corrisponda nel profondo, che tenga unita la conoscenza del cuore con quella della mente, perché, per me, guardare la realtà, non è un’ osservazione asettica, priva del mio essere dentro questa realtà, ma è partecipazione attiva con tutto il mio essere.
Questa libertà di discernimento che mi concedo, che fino ad oggi era un diritto – chIssà ancora per quanto? – e che condivido con gli altri (siamo esseri comunicanti non possiamo non farlo) oggi è mal tollerata, è vista come pericolosa per la comunità di cui faccio parte. Nonostante viviamo in sistemi democratici è proprio questa libertà di interpretazione che viene messa in discussione; non si fa altro che sentire dire che solo i competenti possono esprimere il loro pensiero, agli altri è concesso pensare – dunque dubitare – (chissà ancora per quanto?) ma non di esprimersi.
Possiamo tentare di capire chi siamo ma non possiamo dirlo perché se affermiamo il nostro pensiero e il nostro essere, se solo ci poniamo dei dubbi, se ci autodeterminiamo, azione che ha bisogno di essere messa in parole, incorriamo nella accusa di impedire all’altro la sua autodeterminazione e cosa ancora più grave manipoliamo la realtà. La definizione di libertà che ha caratterizzato il secolo scorso “la tua libertà finisce dove inizia la mia” mostra chiaramente quanto questo impianto filosofico alla base delle nostre democrazie attui una competizione sfrenata: il più forte vince (Charles Darwin) e ottiene le libertà e gli altri soccombono.
Mi sono chiesta come sia possibile che siamo giunti a questo cortocircuito per il quale parole fondanti le comunità come libertà, amore, dono, bene comune, siano diventate parole divisive al punto da creare una spaccatura così grande. Curiosamente viviamo in paesi che fanno della loro bandiera il rispetto delle differenze, ma siamo giunti a cancellare le differenze proprio in nome di quel rispetto che dovrebbe renderci liberi. Addirittura oggi la libertà sembra essere diventata un brand acquistabile sul mercato (slogan tipo + vaccinati + liberi ) non fanno altro che confermare questa ipotesi.Sappiamo bene che il concetto di libertà è continuato a cambiare nell’arco della storia e questo suo cambiare ha contribuito all’evoluzione della umanità, e dunque, in un certo senso, questo suo travaglio fa parte del grande cambiamento che stiamo attraversando, dei tempi estremi in cui siamo immersi. Certamente in nome della libertà si sono fatte grandi guerre, le più spaventose e sanguinose, e oggi siamo in guerra, non contro il virus, ma fra di noi, una guerra carsica che scava solchi profondi; ma io spero arditamente che il risveglio delle coscienze e dell’amore sia già qui, nel nuovo che sta nascendo. Dunque torno alla questione che mi sono posta: come è possibile che le parole abbiano perso un significato unificante e siano diventate armi potentissime legate a immaginari assai lontani che rischiano di deflagrare in una guerra senza confini, in una guerra che entra nelle nostre stesse case causando grande dolore e sofferenze? Per darmi una risposta devo andare un po’ indietro nel tempo.
Le parole non cambiano il loro significato semantico così velocemente, di solito è un processo lungo che avviene carsicamente; quando poi emerge può essere assorbito in modo apparentemente indolore o invece può causare stravolgimenti come quelli che stiamo vivendo. Ma quale potrebbe essere la radice dello stravolgimento semantico odierno?
Io credo di averlo individuato nella cancellazione delle madri a livello simbolico. So che non sarà facile seguirmi nel ragionamento e so anche che incorrerò nuovamente nell’accusa di manipolare la realtà ma io voglio semplicemente percorrere la strada interiore che mi ha portato a questo discernimento. La mia non è una verità assoluta ma la verità che mi corrisponde e ognuno sarà libero di trarne le sue conseguenze. Il linguaggio umano è un mezzo molto sofisticato e “la lingua è la caratteristica nucleare che ci rende essere umani” (Noam Chomsky) ma la lingua ovunque nel mondo viene definita come lingua madre perché ce l’abbiamo da sempre, “perché l’abbiamo ricevuta gratis da quando nasciamo“ (Valeria Gheno) ed è dunque fortemente legata al prelinguaggio ereditato dalla madre, alla lingua del territorio che ci ha visto crescere, alla terra madre, Pachamama. Certo poi quando cresciamo noi scegliamo in autonomia le parole da utilizzare per descrivere la realtà, “trasgrediamo“ la madre (Igor Sibaldi, il concetto di trasgressione[Vedi qui]) per diventare noi stessi, ma quanto conta l’immaginario sul materno nella modifica del valore semantico delle parole?
Quando parliamo di materno o maternità facciamo riferimento a un’ampissima gamma di simbolico, parliamo di concepimento, gestazione, affettività genitoriale, educazione, amore, ma anche di creatività, di maternità di idee e libri arte, maternità-natura e moltissimo altro. Per cercare di darvi un’immagine di cosa intendo con questo ampio ombrello di possibilità, utilizzo la metafora della matrioska.
La maternità è come una grande matrioska che contiene tante piccole matrioske ognuna delle quali portatrici di un sapere specifico, ma tutte connesse tra loro. Oggi, però, facciamo i conti con una parcellizzazione dei saperi in tantissimi ambiti, da quello della salute, a quello economico a quello sociale e giuridico, culturale, che hanno perso la loro originaria unità.
La grande matrioska che conteneva le più piccole è esplosa e il tema della maternità deflagra assumendo nuovi intendimenti. La maternità negli ultimi cinquant’anni ha cambiato volto, da fatto puramente fisiologico è diventata parte integrante del processo di medicalizzazione che ha invaso la nostra società.
Da fatto naturale fortemente legato anche al mistero della vita, a fatto programmabile e costruibile a tavolino attraverso le tecnologie riproduttive.
E badate bene quando parliamo di tecnologie riproduttive parliamo già di quell’unitarietà andata in frantumi.
La domanda dunque è legittima.
Quanto questo immaginario simbolico legato alla madre, alla unitarietà della madre che sparisce nella parcellizzazione di diversi processi impatta sul nostro vivere la realtà?
Io sono giunta alla conclusione che la lingua madre è diventata una babele, perché si è persa la matrioska grande, quella che li contiene tutti e da cui partono le ‘trasgressioni’ che sono la via alla realizzazione di quel sé unico e irripetibile che ci caratterizza e che fa dell’essere umano quel miracolo di amore tra diversi. Il transumanesimo che si fonda sulla violazione della Madre e della sua sacralità, che cancella il pre-linguaggio che unisce l’umanità in una unica famiglia, che fa della intelligenza artificiale il nuovo Dio, (medicinali iniettati da remoto, biobag per fare bambini, identità digitali, medicalizzazione della società per rendere uomini e donne sempre “più perfetti e inattaccabili” (?), robot sempre più intelligenti e simili agli umani) è la causa della babele.
Ma i più non sanno cosa sia l’ideologia transumanista che ci ha portato fin qui, non sanno quanto stia correndo avanti (è stato da poco riconosciuto il diritto alla cittadinanza a Sophia , un robot donna il che significa che a breve competeremo con i diritti rivendicati dai robot) perché è un’ideologia che ha agito di nascosto, vendendo alle masse progressi tecnoscientifici come grandi opere di bene, eludendo il dibattito sulle tantissime questioni bioetiche che si celano dietro. Ma il linguaggio della Grande Madre è più forte, la Donna Selvaggia (Clara Pinkola Estes), emerge dalle coscienze singole (uomini e donne l’hanno dentro, nasciamo tutti da donna – almeno per ora) e come un unico canto ricompatta fratelli e sorelle dispersi nel caos della babele.
Lo vediamo nelle piazze di tutto il mondo, anche se il mainstream non gli da voce. In piazza, per le strade ci riconosciamo, a volte basta uno sguardo per capire che siamo sulla via dei canti (aborigeni australiani) alla ricerca del recupero della lingua madre. Siamo semplici donne e uomini e famiglie che sentono la voce della grande Madre e a lei rispondono.
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Roberta Trucco
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