Liberi di scegliere: l’antimafia riparte dai figli dei boss
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Non potevo strapparmi subito, sanguinando, da ciò cui ero attaccato fin dall’infanzia, cui erano andati tutti gli entusiasmi delle mie speranze e tutte le lacrime del mio odio… E’ difficile cambiare i propri dei. Allora non credetti a voi, perché non volevo credervi, e mi aggrappai per l’ultima volta a questa sudicia cloaca…Ma il seme rimase e crebbe.Fëdor Dostoevskij, I demoni.
Liberi di scegliere. Scegliere se diventare capi mafia o persone senza paura; se vivere con una pistola in mano, pieni di denaro e potere, ma con la consapevolezza che quel denaro e quel potere provengono dal traffico di droga o di rifiuti, oppure con libri e penne fra le mani, con meno soldi, ma tutti guadagnati andando a lavorare ogni giorno. Scegliere insomma fra una vita nella legalità e un’esistenza all’insegna dei (dis)valori mafiosi.
È la possibilità che deve essere data ai minori di mafia, i ragazzi che nascono e crescono nelle famiglie legate alla criminalità organizzata: insieme alle loro madri sono la chiave di volta per scardinare dall’interno le organizzazioni, di cui sono le prime vittime. È però un tema delicatissimo, proprio perché stiamo parlando di bambini e ragazzi: fin dove può spingersi lo Stato per dar loro questa possibilità di scelta?
Se ne è parlato martedì pomeriggio in uno degli appuntamenti della Festa della Legalità e della responsabilità 2018, intitolato proprio ‘Liberi di scegliere’. Ospiti dell’incontro l’avvocato Enza Rando, che fa parte dell’Ufficio legale e dell’Ufficio di presidenza di Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie, e l’avvocato Roberto Casella, componente del Direttivo della Camera minorile di Ferrara.
‘Liberi di scegliere’ è anche il titolo di due protocolli di intesa. Il primo, firmato a luglio 2017 da Ministero dell’interno, Ministero della giustizia, Regione Calabria e diversi uffici giudiziari calabresi, è un nuovo strumento della giustizia minorile che assume un orientamento particolare nei confronti di alcuni minori cresciuti in famiglie appartenenti alla criminalità organizzata, limitando la responsabilità genitoriale, allontanando i minori dalle famiglie d’origine o decidendo l’affidamento esclusivo dei minori al genitore non coinvolto in dinamiche malavitose. È stato ideato a Reggio Calabria da Roberto di Bella, presidente del Tribunale per i minorenni di quella città, che in undici anni aveva visto processare i padri e poi i figli arrivando alla conclusione che la ‘ndrangheta si eredita e quindi si è chiesto come rompere la trasmissione intergenerazionale di quella che non si può non chiamare una vera e propria pedagogia mafiosa.
Il secondo è un protocollo d’intesa siglato lo scorso 2 ottobre tra la Presidenza del consiglio-Dipartimento delle pari opportunità, Procura nazionale antimafia, Libera e altre istituzioni calabresi per promuovere una rete di tutela e protezione dei minori e delle famiglie che desiderino affrancarsi dalla ‘ndrangheta.
“Quando mi sono occupata del procedimento sulla trattativa, ho avuto a che fare anche con Giovanni Brusca: aveva 56 anni e non sapeva dire quanti omicidi aveva commesso – Giovanni Brusca, ora collaboratore di giustizia, è stato condannato, fra gli altri, per l’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, e per la strage in cui morirono Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e tre agenti della loro scorta, ndr – Mi ha detto: “Avevo quattro anni quando un uomo mi ha regalato una pistola e mi hanno fatto sparare a una persona. Per me era normale”. Ecco, allora mi sono chiesta cosa significa la normalità”: così Enza Rando ha spiegato la genesi del percorso ‘Liberi di scegliere’. Se la normalità è la vendetta, la violenza, l’acquisizione e il mantenimento del potere attraverso la violenza, l’intimidazione, la corruzione, come faranno questi ragazzi a decidere del loro futuro?
“Poco tempo fa – ha continuato Rando – ho letto di due gemellini di 7 anni a cui era stato chiesto cosa volevano fare da grandi. Hanno risposto: “Voglio fare come papà, girare con la moto e la pistola. Ora uno vuole fare l’astronauta, l’altro il veterinario”.
“Se si leggono le carte emergono quaranta storie – tanti sono i ragazzi attualmente inseriti all’interno del percorso, a volte con le loro madri – tutte diverse. Il grosso problema è il vuoto legislativo nel quale ricadono perché non sono né collaboratori né testimoni di giustizia. E allora come dar loro un futuro?”
E proprio sulla proposta legislativa depositata in Parlamento si sono concentrate le critiche dell’avvocato Casella: “A spaventarmi è l’automatismo della decadenza della potestà genitoriale in caso di condanna per reati di mafia”, “questi bambini sono uguali a tutti gli altri e hanno diritto anche loro ad avere un papà e una mamma. Quando un provvedimento riguarda un bambino non discernente, magari di 4-5 anni, che viene sradicato dai legami famigliari e dal territorio, qual è l’interesse superiore del fanciullo?” Questo, infatti, è uno dei nodi più problematici di questo nuovo orientamento che ha scatenato un grosso dibattito non solo giuridico, ma anche sul piano sociale, perché all’interno del percorso dei ragazzi sono coinvolti anche psicologi, educatori, assistenti sociali. Il presupposto è che la mafiosità sia un paradigma culturale, un sistema anche educativo, ma queste sono famiglie maltrattanti? C’è in questi casi un conflitto fra l’interesse del fanciullo a una sana crescita psicofisica e quello a crescere all’interno del proprio nucleo familiare d’origine? Naturalmente la finalità di questi provvedimenti non è convertire il minore a una cultura diversa da quella d’origine, quanto di porlo in condizioni di scegliere liberamente tra alternative culturali, valoriali e identitarie. Per fare ciò però, ha sottolineato Rando, “bisogna lavorare sulla formazione per psicologi, educatori, assistenti sociali. Questi non sono numeri, non sono un problema, sono bambini”.
E sempre più spesso insieme ai minori ci sono le madri, che vogliono salvare se stesse e i loro figli da un destino di carcere o peggio di morte, ma hanno bisogno di una nuova identità e di un lavoro per costruirsi una vita dignitosa. È una scommessa che bisogna tentare anche se i frutti non si potranno vedere subito, ha insistito Enza, “saranno le madri a fare questa rivoluzione”. Le madri reggine, napoletane, ma anche lombarde, perché ormai anche il Nord è terra di mafia, lo abbiamo visto con Aemilia. Rando ha raccontato di una mamma lombarda, moglie di un ‘ndranghetista, che ha avuto bisogno di aiuto. “Con il processo Aemilia abbiamo visto riproporsi le stesse logiche familistiche della Calabria. Il problema arriverà con forza anche qui e non dobbiamo farci cogliere impreparati, bisogna costruire una rete per le mamme che verranno a chiedere aiuto”.
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Federica Pezzoli
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