L’EVENTO
Verità e multiculturalità nella personale di Servet Kocyigit
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L’artista è figlio del suo tempo; ma guai a lui se è anche il suo discepolo o peggio ancora il suo favorito. Friedrich Schiller
L’arte può essere estro bizzoso e riflessione etica. Questo è Servet Kocyigit (Kaman, 1971), artista turco nella sua prima personale italiana curata da Silvia Cirelli alle Officine di Milano da oggi 27 novembre al 7 febbraio, intitolata “Il siero della verità”. Incongruenza e paradosso trovano terreno fertile nell’artista turco che, al pari di un Kafka artistico, sperimenta nel proprio lavoro l’eterno equilibrio tra culture: mitteleuropea e plurilinguistica la prima; eternamente scissa e riunita dalle due fedi religiose che la identificano, la seconda.
Al pari dello scrittore, che descrive l’alienazione personale e umana nella grottesca metamorfosi da uomo a insetto, Kocyigit mette in scena la ricerca dell’identità culturale e le tensioni da lui vissute in quanto protagonista di una storia culturale e geografica ricca di contrasti, ambivalenze e contraddizioni da lui stesso vissute, bambino durante gli anni Ottanta che per l’Occidente erano l’apice di un benessere economico ma che per la Turchia rappresentano la summa destabilizzante del terzo golpe militare, dopo i precedenti degli anni 1960 e 1961.
Sono le stesse parole della curatrice a raccontarlo: “L’arte diventa dunque per Kocyigit la ‘parola’ con la quale esprimersi liberamente, lo strumento col quale raccontare le fratture della propria generazione, il senso di sradicamento e la sempre più evidente consapevolezza di una realtà vulnerabile e precaria.” E lo diviene attraverso codici comuni, realtà conosciute e quotidiane.
Il linguaggio verbale accompagna le installazioni, descrivendole; e creando scollamento tra ricercatezza stilistica e banalità, tra nobiltà dell’opera e pressappochismo delle parole che lo descrivono, scarne e limitanti nella loro impossibilità di catturare l’effettiva materia. Ne sono esempi “Sometimes”, in cui una scritta con lettere di stoffa sembra minimizzare la preziosità del materiale, inscenando una mania ossessiva.
Il contra necessità di richiamare alla memoria oggetti e storie passate, senza snaturarle né attualizzarle, ma semplici attimi condensati nel tempo portati nel presente, nella vita di tutti i giorni, mostrando l’impossibilità a una loro attualizzazione contingente e di una armonia eterna, a patto di non snaturarli: sono personaggi felliniani come l’uomo dei palloncini in “Night Shift” e il mulo da soma dei villaggi in “Mountain Zebra”.
Sono secchi per l’edilizia contenenti rappresentazioni in lana del mondo in “Orbit” e video ritraenti globi di lana concepiti e realizzati da mani maschili e femminili, che si completano dando luogo a una morbida verità in “99 Years”. E un’attesa, surreale e sofferente attesa di una celebrità che tuttavia non arriva. In una spasmodica attesa del nulla. Aspettando Godot.
Rappresentazione del grottesco in situazioni quotidiane; ritrae con sarcasmo Don Chisciotte che contempla l’assurdo nella sua battaglia esasperante, storica e umana, nel suo dialogo surreale tra realtà e una immaginazione in cui i mulini a vento non sono forse una realtà assurda. E dove si cerca, ironicamente, il Siero della Verità (“Truth Serum”).
Le immagini per gentile concessione del Courtesy of Servet Kogyigit e di Officina dell’Immagine, Milano
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Giorgia Pizzirani
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