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Sventolano la bandiera palestinese, abbracciandosi, sorridendo, con gli occhi lucidi, emozionati, felici. Tra gli applausi. Quindici minuti di standing ovation per Io sto con la sposa joint venture di tre registi Gabriele Del Grande, Antonio Augugliano e Khaled Soliman, presentata giovedì al Festival del Cinema di Venezia. E’ un storia vera, di libertà e speranza. Una sfida di squadra, una scommessa, ma soprattutto è meglio di una denuncia giornalistica destinata restare confinata nel clamore temporaneo dei media. Proprio così la pensa il giornalista e regista Gabriele Del Grande, cronista dal fronte siriano, che ha incontrato a Milano i profughi-attori della fuga da conflitti e miseria.

Il film, sostenuto con 100 mila euro raccolti grazie al crowdfounding, al contrario di un articolo “usa e getta” tocca i cuori. Resta nella memoria quanto l’escamotage dei cinque fuggitivi, palestinesi e siriani, che grazie a un’idea maturata dai registi sono riusciti ad arrivare in Svezia sfruttando il matrimonio e il suo corteo quale passepartout per varcare le frontiere senza attirare l’attenzione. Ce la fanno. E noi con loro.

Nella sala silenziosa, ogni tappa, ogni passaggio, ogni risata, ogni brindisi, canzone e ricordo hanno intessuto tra i cinque protagonisti e il pubblico un legame d’affetto. Perché la vita è più forte della ragione di Stato e dell’ipocrisia di cui è infarcita a discapito dell’essere umano.
Io sto con la sposa – divenuto in un solo pomeriggio il caso del festival veneziano, accompagnato dall’apparizione di tante giovani donne in abito bianco – è una storia contro la legge. E’una vicenda carica di disperata attualità, all’apparenza inadatta per il red carpet di Venezia, che gli ha riservato a sorpresa un’accoglienza inattesa, soprattutto alla luce dello strisciante razzismo innescato dagli effetti della crisi economica e dall’ignoranza di chi si sente derubato dei propri diritti e servizi.

Poeta lo sposo, scampato al naufragio costato la vita a 500 persone al largo di Lampedusa, rapper il ragazzino che ha attraversato il mare insieme al padre, dissidenti marito e moglie decisi a dare una cittadinanza e una possibilità di futuro ai propri figli, palestinese con cittadinanza italiana uno dei registi, giovane donna bella, forte e istruita la sposa, che cercava di dimenticare il fischio delle bombe ascoltando la musica in cuffia. Sono loro il cast, sono loro ad approdare a Milano per poi intraprendere il viaggio verso nord con una manciata di auto e i vestiti da cerimonia.

Il corteo prende la via dei contrabbandieri tra Italia e Francia, la stessa strada tra i monti percorsa in passato dagli italiani diretti oltralpe in cerca di lavoro. Camminano, in abito lungo e doppio petto, lasciandosi alle spalle il nostro Paese, prima tappa verso il grande nord dove il clima è freddo ma il domani sembra meno grigio. E’ la via della clandestinità, raccontata dal muro di una casa diroccata sul quale, insieme agli altri messaggi, lo sposo scrive i nomi di uomini, donne e bambini conosciuti e annegati nell’attraversata. Una lapide improvvisata per tanti fantasmi di cui le istituzioni non conoscono il nome ma ai quali i profughi non negano la memoria, anzi. Il loro ricordo è forza. Nel film c’è voglia di vivere, di lottare e ridere, i dialoghi ne sono la testimonianza più immediata e, come ovvio, sono lo spunto di tante domande. Cielo e mare, due vie di fuga, accolgono in modo silenzioso le riflessioni della sposa: “il cielo e il mare sono di tutti”. Sono vie da percorrere in libertà, ma se si nasce nella parte sbagliata del mondo ciò che è normale diventa l’eccezione.

Il bicchiere di vino in mano, il più anziano dei protagonisti, si chiede perché mai deve dare le impronte digitali come un delinquente, perché una famiglia di 13 persone deve pagare 13 mila euro e morire inghiottita dalle onde per rincorrere nuove opportunità di vita. Per la verità ce lo chiediamo anche noi, consapevoli del fatto che se si sta male in un posto se ne cerca un altro dove campare meglio. Lo abbiamo fatto e lo facciamo quotidianamente, scappando all’estero con lauree e specializzazioni inutilizzabili nel nostro Paese.

Qualcuno crede davvero di poter fermare la fuga? Un po’ di pubblica sincerità e di reale impegno politico europeo non guasterebbe. E allora “Io sto con la sposa”, con gli abbracci trionfanti di chi ce l’ha fatta, dimenticandosi persino della macchina da presa che per un attimo, quasi a voler tradurre un’emozione, si fissa sul tetto del treno. E’ tempo di festa, è come essere andati in meta. Ed è subito Svezia.

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Monica Forti

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