L’EVENTO
Dalla poeta alla cheffa: nomi che creano fatti.
Piccolo tour tra le parole di una città
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Viaggiare tra le parole. Anche attraverso il vocabolario si può visitare una città, guardarla da un punto di vista inusuale, che è quello dei nomi disseminati tra spazi fisici e di tempo. Lo spunto lo dà oggi il Teatro Ferrara Off. Questa sala con tante seggiole tutte diverse una dall’altra, invita nel pomeriggio a un incontro a ingresso libero che si intitola “Se lo nomini, esiste”. Un’occasione per chi si vuole interrogare su quale linguaggio usare per parlare di stati un po’ fuori dal comune, come sono, in questo caso, le situazioni social-familiari che non rientrano in modelli tradizionali ben precisi. Il confronto-spettacolo fa parte del percorso dedicato a “Nuovi diritti e nuove famiglie”, organizzato dall’assessorato alle pari opportunità del Comune. Ma l’appuntamento in teatro ha caratteristiche poetiche, oltre che giuridiche. Per affrontare questi temi l’autrice, traduttrice nonché presidente del Teatro Off, Monica Pavani, partirà infatti da una poesia di Emily Dickinson, che dà il senso anche al cammino. Scrive la Dickinson: “Muore la parola/ appena è pronunciata:/ così qualcuno dice./ Io invece dico/ che comincia a vivere/ proprio in quel momento”.
Da questo spazio teatrale, in fondo a viale Alfonso d’Este, chi ha voglia di proseguire alla ricerca di parole significative potrà continuare un piccolo tour linguistico a spasso per Ferrara tra nomi e termini particolari e attenti. Parole che descrivono cose e fatti in maniera significativa e rispettosa: rispetto per la lingua italiana e per persone e cose di cui – appunto – parlano. Ma come si fa a trovarle, le parole? In scena (come al Teatro Off) ma anche su insegne, diciture, menù, nelle persone che le usano, nei luoghi che le definiscono, arrivando fino alla rete, nei collegamenti virtuali che rimandano a tutto questo.
Da qualche anno, ad esempio, si parla e si discute di una grammatica al femminile, che altro non è che la spinta a usare parole che indicano ruoli, mestieri e persone, tenendo conto anche del fatto che appartengono a un certo genere anziché a un altro. Questa esigenza si sente in particolar modo per quelle professioni e attività che, tradizionalmente, sono state praticate da uomini e che, pian piano, si sono aperte anche alle donne. O viceversa. Prima, di solito, avviene il cambiamento, sia quello giuridico che consente di cambiare sia quello reale di chi, il rinnovamento, lo mette in pratica. Dopodiché la lingua registra la novità, si adegua e si modifica inserendo il nuovo termine nel suo vocabolario. Anche la parola “computer”, per dire, mica esisteva, prima; e dopo, visto che l’apparecchio è arrivato dal mondo anglosassone, ha preso anche la definizione in lingua inglese.
Adesso il cambiamento riguarda il fatto che ci sono persone a fare cose che, normalmente, non facevano. Come donne che diventano ministro, avvocato, chef. Proprio da quest’ultima parola, può riprendere il giro nella città di Ferrara. A colpire è la scritta a gessetto che c’è sulla lavagna del piccolo ristorante di via Carlo Mayr, al numero 4, che si chiama in modo semplice e diretto, DiCibo. Sulla lavagnetta appoggiata all’esterno c’è scritto quello che “oggi la cheffa Maya propone”. “Cheffa”, però! Entri e chiedi al proprietario del locale, che è un uomo, la storia di questa scelta. Matteo Musacci spiega che lui e i suoi collaboratori sono rimasti colpiti dal racconto di una signora che si chiama Roberta Corradin, che ha deciso di mettersi ai fornelli per mestiere e in quel momento si è chiesta cosa sarebbe diventata, visto che si parla sempre di chef evocando immagini maschili col cappellone bianco in testa. Su questo, la Corradin ci ha scritto un libro che si intitola “Le cuoche che volevo diventare”. Partendo da quelle parole scritte, Matteo e i ragazzi del suo staff hanno deciso di andare a trovarla nel ristorante dove lavora, in riva al mare della provincia siciliana di Ragusa. “Siamo rimasti conquistati”, dice il ristoratore 29enne. Conquistati dalle sue parole, dalla sua cucina, dalla sua riflessione. Ecco, quindi, attraverso quale lungo giro di pagine e luoghi ci è arrivata qui – in pieno centro storico – la parola “cheffa”, che serve a definire un’altra signora che fa da mangiare ogni giorno con creatività, sbuzzo, professionalità e attenzione per il benessere di chi sceglie i suoi piatti.
Un giro ancor più lungo – sempre in tema di alimentazione e lingua – l’ha fatto il titolare del ristorante che si chiama, con curiosa analogia, Cibò: riferimento tutto italiano a quello che, per vezzo o moda o chissacché, spesso invece si definisce “food”. Per aprire il locale nel pieno centro cittadino di via Voltapaletto 5 quasi all’angolo con Bersaglieri del Po, c’è lui Amin Ramadan, 30enne di origini libanesi e accento tutto ferrarese. Un mix che è la messa in pratica della buona convivenza tra culture e pensieri diversi e che ritrovi nei sapori. Cibò mette insieme la cucina fatta con parole locali come cappelletti e cappellacci di zucca con piatti vegetariani e vegani e specialità libanesi tradizionali, che si chiamano shawarma, kefta, hommus.
Dal ristorantino esci, ti dirigi a destra lungo via Adelardi e in due passi sei già accanto al Duomo. Vai ancora avanti, sotto al Volto del Cavallo, e c’è il palazzo Municipale, ex sede ducale estense, e sempre e ancora centro di governo cittadino. Qui trovi un’altra parola: assessora. Ce ne sono quattro su nove, qui dentro. Nel senso che il sindaco di Ferrara – rieletto nel maggio 2014 – ha una giunta composta da nove assessori, 5 uomini e 4 donne. Ma, perché valga la pena di una visita in questo tour linguistico, serve più che il fatto, il termine che lo definisce. E le parole ci sono: sono dentro i comunicati e le note dell’Ufficio stampa comunale che, in cima allo scalone, ogni giorno racconta quello che succede a livello di amministrazione. E, quando parla di una donna che ha la delega all’urbanistica, alla sanità, alla pubblica istruzione o all’ambiente, usa la parola “assessora”. A supporto di ciò il quotidiano online del Comune di Ferrara allega anche una documentazione che supporta questa scelta. Nel link ci sono le “Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo” di Cecilia Robustelli, raccolte in collaborazione con l’Accademia della crusca, e il vademecum all’uso di femminile e maschile scritto da Luciana Tufani, editrice, ideatrice e coordinatrice del Centro documentazione donna che è a Ferrara in via Terranuova 12.
Per tornare alle letture liriche da cui parte questo viaggio, è proprio la Tufani che, in quel manualetto, parla di una poeta. Ma come, non poetessa? “Sì – ti spiega Luciana Tufani – il termine poetessa è ormai entrato in uso, però è stato inventato per sottolineare in modo sprezzante la femminilità di chi scriveva versi, che fino ad allora erano composti perlopiù da penne maschili. Ma a voler essere precisi la lingua italiana prevede la definizione di un poeta e una poeta, che significa colui o colei che poeta, cioè che fa poesia”. Quindi è più corretto parlare di una poeta, ma chi dice poetessa può farlo perché, ormai, la parola è entrata nell’uso e ha perso la connotazione negativa. Sempre lei ti spiega, poi, che quando qualcuno ti fa una multa, e la faccia che vedi sopra la divisa è femminile, si tratta di una vigile, non vigilessa. “La parola – dice – deriva dal verbo vigilare, come dirigente deriva da dirigere. La femminilizzazione con finale in ‘essa’ non è filologicamente corretta e, anzi, viene usata proprio per sottolineare qualcosa di anomalo”. O, in caso di multa, diciamo anche per dar voce a un sentimento risentito.
Il riferimento al codice della strada ci fa posare gli occhi su un fuoristrada vistosamente parcheggiato sul marciapiede. Ostentazioni e mancanza di modestia che – per contrasto – vanno a esaltare il nome che si è dato un gruppo di persone che viaggia sottotono, si interessa di narrativa, ideologia e discorsi letterari, ma con parole terra a terra e simpatica autoironia. L’idea ce l’ha avuta già qualche tempo fa Gian Pietro Testa che, per mettere insieme i suoi colleghi e amici romanzieri, pensatori o anche solo amanti di cose interessanti e belle ha creato l’Accademia degli umili. “In diversi, all’inizio – racconta il giornalista-scrittore con l’atteggiamento un po’ disincantato e irridente che lo contraddistingue – mi hanno detto che, insomma, non è che gli piaceva tanto questa cosa”. La definizione può sembrare, in realtà, anche un po’ snob. Ma evviva tutti quelli che si vantano di scegliere una bandiera come quella dell’umiltà!
E magari con curiosa umiltà continuiamo questo cammino, a spasso tra parole che dicono le cose e le fanno esistere. A partire da questo pomeriggio. Dove, prendendo a prestito quello che dice la poetessa (o poeta) contemporanea Chandra Livia Candiani, si riparte da una delle principali missioni della cultura, che è quella di “mantenere viva la parola, fare ancora della parola innanzi tutto una presenza; vibrante, vera, che pulsa e intimorisce”. Perché “forse – nota poeticamente la Candiani – la cultura ha bisogno di sapere che le culture sono tante e deve lasciarsi mutare, parlare con le altre, fare l’amore e lottare, convivere e trasformarsi, come fa l’aperto, la natura, bestie, rocce e alberi”.
“Se lo nomini, esiste”, oggi – mercoledì 20 maggio 2015 – ore 17, Teatro Ferrara Off, viale Alfonso I d’Este 13.
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Giorgia Mazzotti
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