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di Federica Mammina

Si è da poco conclusa una vicenda giudiziaria risalente a qualche anno fa, che ripropone l’eterno dilemma su cosa debba prevalere tra il diritto a non veder offesa la propria religione e il diritto d’espressione. Alla Corte europea dei diritti dell’uomo si era rivolta nel 2012 una società lituana produttrice di vestiti che si era vista multare da un organo locale adibito al controllo della pubblicità, dopo aver realizzato una campagna pubblicitaria in cui campeggiano un uomo e una donna chiaramente riproducenti le fattezze di Gesù e Maria, vestiti con jeans e abiti moderni, tatuaggi in bella mostra e frasi di accompagnamento del tipo “Gesù che pantaloni!”.
Non potendo essere il ridicolo ammontare della multa (ben 580 euro per aver offeso la morale pubblica!) il motivo che ha spinto l’azienda al ricorso, sembrerebbe piuttosto da individuare nel voler affermare un principio. Missione compiuta, si può dire, per l’azienda spalleggiata dalla Corte che con questa sentenza legittima e difende l’uso di simboli religiosi nelle pubblicità, perché nel caso specifico ha ritenuto che l’organo multante “non abbia raggiunto un giusto equilibrio tra la protezione della morale pubblica e i diritti delle persone religiose da una parte e il diritto alla libertà d’espressione dell’azienda dall’altra”.
Davvero siamo giunti al punto di affermare che la libertà di espressione applicata ad un’attività commerciale sia prevalente rispetto all’intimo sentimento religioso di chi vede la propria divinità (qualsiasi essa sia!) sminuita da un simile utilizzo?
La Corte ha detto sì, ma si è dimenticata di precisare in quale forma sarebbe possibile non offendere le persone religiose pur utilizzando l’immagine di una divinità per scopi che esulano completamente dal culto. Forse alla prossima puntata ce lo dirà.

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Redazione di Periscopio



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