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Spesso la scuola rende un brutto servizio ai classici della letteratura e della cultura. Non è stata la mia sorte perché incontrai, ragazzo, un eccellente professore che fece da guida rigorosa alla comprensione dei grandi. Poi, per uno dei miracoli che nella vita accadono, quella relazione tra docente e alunno si trasformò in una bella amicizia che continua tuttora. Tornando al tema di questa nota, consideriamo Giacomo Leopardi. Rispetto all’immagine del poeta di Recanati che uno studente medio porta con sé dopo la scuola (uomo lamentoso, misantropo, pessimista nichilista), metterei in fila alcune caratteristiche del suo pensiero che sbriciolano molti luoghi comuni.
La sua opera si è manifestata in una ricca varietà di modi espressivi: poesia, prosa, pensieri, lettere. Leopardi è, insieme a Dante, il nostro più grande poeta, ma è anche un grande filosofo. Lo “Zibaldone” (più di quattromila pagine) è l’officina del suo pensiero problematizzante e interrogante. Ma vi è una costante che tiene insieme questo universo plurale di un pensiero poetante: una continua interrogazione sulla condizione umana. Espressione che gli piaceva e che ricorre spesso nei pensieri dello “Zibaldone” e che, probabilmente, è di origine francese rinascimentale (Montaigne) e illuminista.
Un’altra costante è il rapporto con il suo presente che smentisce l’idea di un ripiegamento vittimistico sui propri mali fisici! E qui inserirei la prima sorpresa contro i pregiudizi che circondano il cosiddetto moralismo leopardiano, che riguarda la sua concezione del rapporto tra morale e politica. “La morale è una scienza astratta se è separata dalla politica. La pratica della morale dipende dalla natura delle istituzioni sociali e dal governo della nazione: ella è una scienza morta, se la politica non cospira con lei e non la fa regnare nella nazione. Parlate di morale quanto volete a un popolo mal governato e non accadrà niente, perché la morale è una parola, la politica un fatto.” (“Zibaldone di pensieri”, Garzanti). Si può essere più chiari e precisi? Quindi la morale sta sopra, ma è astratta, è una scienza morta se è fuori dal legame con la politica che deve praticarne i principi mediante il ricorso ai suoi strumenti: progetto, azione, mediazione, compromesso.

Un altro tema leopardiano presente nella sua antropologia filosofica è la triangolazione del rapporto tra desiderio-immaginazione-illusione. Tre parole sepolte sotto strati secolari di pregiudizi e semplificazioni. In questa sede si può solo rilevare che è l’immaginazione a fare la differenza tra l’uomo e l’animale, poiché agendo sui desideri, li movimenta e inventa continuamente, impedendo che restino chiusi nei confini di una animalità ripetitiva. E anche le illusioni (che nel linguaggio di oggi chiamiamo ideali) traggono continuo alimento dall’immaginazione che promuove creatività, progettualità, capacità di pensare ciò che ancora non esiste. Ecco da dove scaturisce il tema dell’infinito leopardiano! Il desiderio umano è al fondo un desiderio senza oggetto definito, se non appunto quel senso di illimitatezza o immensità che è presente anche nei versi famosi di Ungaretti: “m’illumino di immenso…”. Questa immensità verso una immaginazione e una illusione incomprimibili spingono il pensiero; scuotono e mettono in crisi un’idea fissa e arida di razionalità. E i versi de “L’infinito” (“tra questa immensità s’annega il pensier mio…”) sono la cifra di questo rimescolamento del rapporto tra passioni e ragioni. “Le illusioni per quanto siano illanguidite e smascherate dalla ragione, tuttavia restano ancora nel mondo, e compongono la massima parte della nostra vita. E non basta conoscer tutto per perderle, ancorchè sapute vane. E perdute una volta, né si perdono in modo che non ne resti una radice vigorosissima, e continuando a vivere, tornano a rifiorire in dispetto di tutta l’esperienza, o certezza acquistata.” (“Zibaldone”). Riusciamo a comprendere ciò che ci sta dicendo il grande pessimista Leopardi? Che la ragione (e la filosofia) distruggono le illusioni, ma le illusioni (o gli ideali, le utopie…) non muoiono mai perché, finchè dura la vita, tornano sempre a rifiorire.

Fiorenzo Baratelli è direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara

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Fiorenzo Baratelli

È direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara. Passioni: filosofia, letteratura, storia e… la ‘bella politica’!

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