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L’elogio all’utopia di uno scomodo comunista libertario

Articolo pubblicato il 20 Dicembre 2013, Scritto da Gian Pietro Testa

Tempo di lettura: 2 minuti


Andrei Platonov è stato uno dei più grandi, e misconosciuti, scrittori russi del Novecento: odiato da Stalin, venne imprigionato, ma era un comunista vero e alla cultura destrorsa dell’occidente non serviva per propagandare l’anticomunismo viscerale di tipo maccartista che dominava il mondo al di qua della cortina di ferro. Era un comunista libertario, una specie da evitare come la peste. Il suo capolavoro, “Il villaggio della nuova vita”, pur tradotto in italiano ed editato da Mondadori e, se non ricordo male, da Rizzoli, morì dimenticato sulle scansie delle librerie, sepolto sotto le macerie di una letteratura molto spesso d’accatto. Non doveva essere letto e amato dagli italiani, non si sa mai. Ma il suo fantastico racconto è sempre più inesorabilmente attuale. Narra di un uomo, il quale non accetta la fine della rivoluzione d’ottobre e parte alla ricerca di quella che chiama la sua fidanzata, Rosa Luxemburg, morta – secondo questo matto protagonista- soltanto per la propaganda capitalista. Parte in groppa al suo cavallo dal nome emblematico di Forza proletaria: non arriverà mai a trovare la Luxemburg, ma giungerà in un paese anarchico ai confini delle Russie, dove la gente, in barba alla stupida burocrazia, ogni giorno cambia posto alla propria casa ambulante: qui, in questo nuovo mondo, nuovo e libero, si fermerà. E’ chiara la matrice utopistica del romanzo, ma senza utopie l’uomo dove finirà? Ho ripensato a Platonov leggendo di quella povera donna polacca morta di freddo qui a Ferrara, sotto un ponte, anche lei era arrivata nel nostro paese, non in groppa a Forza proletaria, ma in pullman, alla ricerca di un nuovo mondo, giusto e libero, l’utopia non ha confini: l’Italia giusta e libera? Per carità. Il nostro paese è un concentrato di ingiustizie spesso imbecilli, in mano a coloro che strillano più forte, agli imbonitori da fiera: per favore, si guardino i nostri uomini politici, coloro i quali dovrebbero cambiare il Paese, non hanno programmi, nemmeno sogni, hanno molta voce, strillano come dei pazzi uno contro l’altro. E’ uno scenario grigio quello in cui viviamo. C’è qualcuno che vuole cambiare sistema, che non vuole più essere servo di interessi economici misteriosi e quasi sempre sballati, che voglia crescere delle generazioni solidali, che voglia la giustizia sociale? Utopia? Utopia, meglio che queste urla volgari che sentiamo ogni giorno. Martin Luther King aveva un sogno, i nostri linguacciuti baroni no, non corrono il rischio di essere uccisi, nemmeno – purtroppo – di andare in galera se hanno rubato.

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Gian Pietro Testa



Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani