Da quali conflitti sono attesi i nostri “ragazzi del ’99” e quale mondo affronteranno? I loro coetanei, un secolo fa, sedicenni, furono mandati allo sbaraglio in guerra a morire al fronte per difendere la Patria. I nostri giovani, nati al serrar del sipario del ‘secolo breve’, nel 2015 si dovranno misurare con guerre non dichiarate, in uno scenario fatto pur sempre di macerie. Dovranno difendere se stessi dai detriti tossici di una società che, nell’età dell’opulenza, non ha saputo frenare i propri appetiti e a una pacifica e dignitosa convivenza ha preferito la logica della sopraffazione in funzione del profitto. La ricchezza individuale a discapito d’ogni equa e solidale coesistenza.
Così mentre nei convegni dibattiamo degli orrori del secolo scorso, di là dai vetri si consuma un presente non meno cruento.
Nel mondo di oggi, popolato da oltre 7 miliardi di uomini e donne, quasi un miliardo di persone vive in condizioni di povertà. Ogni cinque secondi un bambino muore di fame. Secondo il Wfp (World food programme) oltre 800 milioni di persone soffrono la fame e un individuo su nove non ha abbastanza cibo per condurre una vita sana e attiva. La malnutrizione favorisce le malattie e nei casi più drammatici porta alla morte. La Fao stima che ogni giorno 24mila persone muoiano per carenze alimentari: significano quasi nove milioni ogni anno. Eppure ci sarebbe cibo a sufficienza per sfamare l’intera popolazione mondiale.
Due miliardi vivono senza strutture igienico-sanitarie adeguate. Più di 4.000 bambini sotto i 5 anni muoiono ogni giorno di diarrea, una malattia facilmente curabile. Inoltre 72 milioni di bambini (in maggioranza femmine) non vanno a scuola.
Sull’umanità, paradossalmente, incombono rischi di siccità. Un miliardo di persone vive senza avere accesso all’acqua pulita. Un paio d’anni fa quaranta ex capi di Stato e di governo hanno messo a punto un rapporto sulla crisi idrica mondiale. Secondo il documento se non cambierà il modo in cui viene gestita l’acqua a livello globale, entro vent’anni molti Paesi – a cominciare da Cina e India – si troveranno di fronte a una domanda che non saranno in grado di soddisfare, con gravi ripercussioni per la pace, la stabilità politica e lo sviluppo economico. Il problema riguarda anche il nostro continente. Secondo le stime dell’Agenzia europea dell’ambiente l’11% della popolazione e il 17% del territorio europeo sono colpiti da carenza idrica.
E c’è dell’altro: nel 2015 potrebbero essere 375 milioni le persone colpite da calamità legate ai cambiamenti climatici, con un aumento del 50% rispetto agli attuali 250 milioni.
Si stima un aumento di 133 milioni di persone fra 6 anni, a causa di catastrofi naturali determinate dal riscaldamento globale.
Il 2013 secondo il Conflict Barometer dell’Heidelberger Institut für International Konfliktforschung è stato l’anno che ha fatto registrare il maggior numero di guerre dal 1945: 20 oltre a 414 conflitti armati. Il settore che trae profitto da questa drammatica situazione è ovviamente il mercato delle armi. Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute, nel 2012 sono stati investiti in spese militari 1.750 miliardi di dollari. La maggior parte degli Stati belligeranti è in Africa, il fronte più caldo assieme al Medio-oriente.
Ma ciò che emerge dalle stime dell’ Heidelberger Institut, secondo l’opinione di Caritas, Famiglia Cristiana e il Regno, artefici del rapporto “Mercati di guerra”, è solo la punta dell’iceberg.
Secondo il Gcap (Global call to action against poverty) ogni anno nel mondo si destinano oltre mille miliardi di dollari a spese militari, circa 325 miliardi all’agricoltura e solo 60 miliardi per aiuti allo sviluppo. Per ogni dollaro speso in cooperazione allo sviluppo, 20 dollari sono spesi per armamenti.
Sempre in tema di violenza nel 2012 sono stati censiti 437mila omicidi in tutto il mondo. L’area centro-settentrionale del Sud America risulta la più pericolosa.
Non meglio va sul fronte dei diritti umani. Tra il 2009 e il 2014, Amnesty International ha registrato torture e altri maltrattamenti in 141 Paesi. In 58 Stati resta in vigore la pena di morte, benché solo una minoranza la applichi con sistematicità. Fra i regimi democratici sono solo 7 a mantenerla nell’ordinamento, fra essi Stati Uniti, India e Giappone.
I regimi dispotici risultano essere 47. Secondo Freedom House le società meno libere del mondo, a pari demerito, sono Repubblica Centrafricana, Guinea equatoriale, Eritrea, Corea del Nord, Arabia saudita, Somalia, Sudan, Siria, Turkmenistan e Uzbekistan.
Infine i dati sulla corruzione: l’Italia qui mostra la propria eccellenza e guadagna la medaglia di fango. Il Corruption Perception Index 2014 di Transparency International, che riporta le valutazioni degli osservatori internazionali sul livello di corruzione di 175 Paesi del mondo, colloca il nostro al 69esimo posto della classifica generale, fanalino di coda del G7 e ultimo tra i membri dell’Unione Europea, scavalcato da Bulgaria e Grecia. Un bel primato.
Al tirar delle somme, non è un bel mondo. Ma lo sapevamo già. Così, mettendo in fila un po’ di numeri forse fa più impressione, però. Tanto c’è da fare. Non con le armi, ma con l’intelligenza e la forza della ragione. La temperie è quel che è. Ma lo abbiamo imparato da tempo e lo insegneremo ai nostri figli: scarpe rotte eppur bisogna andare.
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Sergio Gessi
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