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Il 13 aprile, per un triste e amaro scherzo del destino, se ne sono andati due grandi e preziosi intellettuali, stesso giorno, parti opposte del mondo, uno a Lubecca, l’altro a Montevideo. Entrambi voci dissenzienti, due dei più grandi autori del Novecento. L’uruguayano Eduardo Galeano e il tedesco Günter Grass.
Ho scoperto Galeano quando ancora studiavo a Parigi, all’Institut des hautes études de l’Amerique latine della Sorbona III. Non vi era allievo, studente o professore che non ne conoscesse gli scritti. Se si volevano approfondire molti aspetti di quella cultura e zona del pianeta, bisognava leggerlo. L’ho letto prima in spagnolo, con fatica, poi in francese. In Italia, non era molto diffuso (o almeno non lo conoscevo io), mi avrebbe aperto un mondo su realtà conosciute dai libri di storia in maniera alquanto superficiale, avrei capito tante cose anche di amici che provenivano da là.

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La copertina

Ovviamente, il primo testo che avevo letto era “Le vene aperte dell’America Latina” (1971), consigliato, sfogliato e ri-sfolgiato da tutte le generazioni che avevano studiato e lavorato sulle tematiche dell’area, sociali, economiche o di diritto che fossero. Un testo spesso rinnegato (lo stesso Galeano ne aveva ripudiato il contenuto, dicendo che non sarebbe stato capace di rileggerlo, perché non sopportava l’ignoranza in materia economica con cui aveva lavorato a questo resoconto in prosa poetica, dello sfruttamento delle risorse naturali latinoamericane). Io mi occupavo di ambiente e di acqua, di Messico, di Argentina e di Mercosur. Galeano mi avrebbe accompagnato nelle sere parigine fredde e rigide. Di lui sapevo anche che era stato giornalista (dall’età di 14 anni, con El Sol, settimanale del Partito socialista), imbianchino, operario, meccanico, pittore, cassiere, ma, soprattutto, lo scrittore che aveva dato all’America latina la voce delle rivendicazioni anti-coloniali, dai tempi dei conquistadores fino ai giorni nostri. Qualche anno dopo, nel 2009, quando Hugo Chavez incontrò Barack Obama per la prima volta, gli avrebbe regalato quel libro forte, intenso, per certi versi spudorato e senza freni. Un libro impegnativo, ma molto interessante, un saggio sulla storia socio-economica e sulle attuali condizioni politiche dell’America latina; un viaggio nella memoria per trovare una chiave di lettura per il presente, alla ricerca delle radici profonde della violenza e dello sviluppo mancato che la insanguinano da secoli, fenomeni visti come due facce della stessa medaglia. Un libro che aiuta a delineare un panorama più chiaro sulle cause della povertà di questi luoghi e, più in generale, sulle radici della miseria del terzo mondo, e a comprendere le grandi forze economiche come motori potenti della storia. Un testo quasi subito diventato, per gran parte della sinistra, la storia dell’America latina per eccellenza, o meglio il più illuminante distillato di quella storia, la sua vera essenza. Già la prima frase del testo ne conteneva l’essenza: “La divisione internazionale del lavoro consiste nel fatto che alcuni paesi si specializzano nel guadagnare ed altri nel perdere.” O, ancora di più, il titolo del suo primo capitolo: “La povertà dell’uomo come risultato della ricchezza della terra”. In sostanza: l’America latina è povera, perché un’altra parte del mondo (la Spagna imperiale prima, la Gran Bretagna poi e, infine, gli Stati uniti d’America) l’ha sistematicamente depredata delle sue risorse naturali e sistematicamente sottomessa. Un’analisi profonda, spietata, critica e dura, una rivelazione. Bene contro male. Come sempre, dalla notte dei tempi.

Nel 1973, quando i militari presero il potere con un golpe, fu imprigionato e costretto a fuggire. Andò in esilio in Argentina, ma nel 1976, anno del sanguinoso colpo di stato del generale Videla, il suo nome fu inserito nella lista dei condannati dagli “squadroni della morte” e riparò in Spagna. Tornò in Uruguay nel 1985, con la democrazia. Tra le sue opere più famose, fra gli oltre 30 libri tradotti in più di 20 lingue ricordiamo, anche, “Specchi” (2008), “Un incerto stato di grazia” (con Sebastião Salgado e Fred Ritchin, 2002), “Splendori e miserie del gioco del calcio” (1997), “La conquista che non scoprì l’America” (1992), “Memoria del fuoco” (1982-1986). Amante del calcio, Galeano con “Splendori e miserie del gioco del calcio” aveva creato una piccola enciclopedia tascabile sul gioco del calcio. Se uno chiedeva, ad esempio, chi ha inventato la rovesciata e perché in Sud America la chiamano “chilena”, Eduardo Galeano rispondeva “Ramon Unzaga inventò questa giocata sul campo del porto cileno di Talcahuano: con il corpo sospeso nell’aria, di spalle al suolo, le gambe lanciavano il pallone all’indietro nel repentino andirivieni delle lame di una forbice”. Football e poesia. La sua ultima opera, uscita in Italia nel 2012, “I figli dei giorni”, è una specie di calendario, con 366 brevi testi, uno per ogni giorno, a partire dal primo gennaio, dove ogni testo è ispirato a un evento legato al giorno in esame. Cosi, ad esempio, vi ritroviamo re Giacomo II che, nel 1457, proibisce agli scozzesi il gioco del golf, e il divieto fallisce; Truman che, dopo Hiroshima, dice: “Rendiamo grazie a Dio per aver messo la bomba nelle nostre mani, e non nelle mani dei nostri nemici”; Mata Hari, condannata a morte nel 1917, che seduce il plotone d’esecuzione lanciando baci; o Rosa Luxemburg, massacrata nel 1919 a Berlino, e una sua scarpa rimasta nel fango, come un monito, amorevolmente raccolta. Un autore che andava al cuore delle cose, oltre gli schemi, capace di vedere, tessendo una visione del mondo con buoni e cattivi. Talento unico.

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La copertina

Così come unico era Gunter Grass (che, ammetto, conosco meno di Galeano), scomparso a 87 anni (Galeano ne aveva 74), lo stesso 13 aprile, anch’esso voce scomoda fuori dal coro, considerato la coscienza critica della democrazia tedesca, diventato noto per il “Tamburo di latta” (1959), oltre che per il Nobel per la letteratura, ricevuto nel 1999. Fu sempre una voce critica e inquieta, come Galeano, pur essendo vissuto nel silenzio per decenni, prima di ammettere di essersi arruolato volontario nelle Ss naziste, da giovane (solo in “Sbucciando la cipolla”, confessò la sua infatuazione adolescenziale per il Terzo Reich e il senso di colpa che, da allora, non lo abbandonava).
“Il tamburo di latta” narra del bimbo-nano Oskar Matzerath, che, a tre anni, decide di non crescere più e osserva dal basso il mondo in tutti i suoi peggiori risvolti, con infantile perfidia e uno stupore maligno, deformato dalla sua situazione. Attraverso questa dura vicenda familiare, il libro racconta la storia di Danzica, la città dove Grass nacque il 16 ottobre 1927, da padre tedesco e madre kashuba (una minoranza etnica slava ora vivente in Polonia), luogo multietnico in cui polacchi, tedeschi e kashubi convivono tra tensioni e fatiche. E fin da allora, Grass si batté per il dialogo Est-Ovest, per tentare di costruire ponti tra l’Europa libera e quella dietro il Muro, occupata e ‘comunistizzata’ dai sovietici. Il libro, secondo molti, ha rappresentato il manifesto di una nazione prigioniera della sua ipocrisia, di un mondo intriso di doppiezza, cattiva coscienza e menzogna.
In molti romanzi, da “Anni di cani” (1963, una riflessione sulle azioni della Germania nella seconda metà del Novecento e sulla coscienza tedesca) al “Diario di una Lumaca” (1972, sulla politica tedesca e le elezioni parlamentari del 1969), da “Gatto e topo” (1961) a “Il rombo” (1979), narrò ambiguità e contraddizioni della Germania moderna, con una prosa che reinventò il tedesco letterario. Fu molto duro contro il riarmo con cui la Nato rispose negli anni Ottanta al riarmo aggressivo atomico dell’Urss post brezneviana, sempre critico verso gli Stati uniti, negativo sul modo in cui Helmut Kohl gestì la riunificazione tedesca. E da ultimo, verso Israele, che accusò di essere il vero pericolo per la pace in Medio oriente. Attacco che gli valse il divieto d’ingresso nel Paese, dichiarato “persona non grata”. Padre di 4 figli, Grass aveva anche altri talenti: nella sua casa a Behlendorf, con la sua amata moglie Ute sempre vicina, era anche bravo scultore, pittore e incisore. Uno scrittore contro, spesso definito come “la nuova Germania”, un giovane arrabbiato che fa piazza pulita di tutti i buoni sentimenti e dei falsi pentimenti del dopoguerra. Espressione, comunque, delle lacerazioni dell’animo tedesco.
Buon viaggio, allora, e grazie di tutto. A tutti e due.

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Simonetta Sandri

E’ nata a Ferrara e, dopo gli ultimi anni passati a Mosca, attualmente vive e lavora a Roma. Giornalista pubblicista dal 2016, ha conseguito il Master di Giornalismo presso l’Ecole Supérieure de Journalisme de Paris, frequentato il corso di giornalismo cinematografico della Scuola di Cinema Immagina di Firenze, curato da Giovanni Bogani, e il corso di sceneggiatura cinematografica della Scuola Holden di Torino, curato da Sara Benedetti. Ha collaborato con le riviste “BioEcoGeo”, “Mag O” della Scuola di Scrittura Omero di Roma, “Mosca Oggi” e con i siti eniday.com/eni.com; ha tradotto dal francese, per Curcio Editore, La “Bella e la Bestia”, nella versione originaria di Gabrielle-Suzanne de Villeneuve. Appassionata di cinema e letteratura per l’infanzia, collabora anche con “Meer”. Ha fatto parte della giuria professionale e popolare di vari festival italiani di cortometraggi (Sedicicorto International Film Festival, Ferrara Film Corto Festival, Roma Film Corto Festival). Coltiva la passione per la fotografia, scoperta durante i numerosi viaggi. Da Algeria, Mali, Libia, Belgio, Francia e Russia, dove ha lavorato e vissuto, ha tratto ispirazione, così come oggi da Roma.


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