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Una nomade tibetana

Il matrimonio tra il Centro di Produzione culturale la Pelanda del Testaccio e la fotografia non solo è ben riuscito, ma è un trionfo, quando di mezzo ci si mette la religione. Anzi le religioni. La mostra ‘Le vie del Sacro’ di Kazuyoky Nomachi, in programma fino al 4 maggio, è una delle proposte più azzeccate nella Roma di Francesco, il papa ‘pigliatutto’. E’ un piacere camminare lungo i corridoi, dove da rastrelliere semicurve di metallo e legno pendono gli scatti del fotografo documentarista giapponese, 68 anni, protagonista di una lunga avventura professionale intorno al mondo durante la quale è rimasto affascinato dai riti di preghiera delle popolazioni incontrate lungo il viaggio. L’occhio di Nomachi rimane prigioniero e cattura la spiritualità degli uomini fotografati in Africa, Asia, America del Sud, nel Sahara, in Etiopia. Lungo il Nilo e sulle rive del Gange, in Tibet, alla Mecca e sulle Ande. Le immagini restituiscono miriadi di fedeli inchinati per osannare Allah, giovani guerrieri dipinti di bianco in omaggio agli dei, donne velate e commosse, visi rapiti dall’estasi, che offrono occhi offuscati dalle lacrime sullo sfondo di paesaggi fumosi, antri biblici, illuminati dai falò o da una luna gigante, impossibile da addomesticare. Così tanto da intimorire. Chi guarda, con occhi e cuore, si addentra in altri mondi. Apre lo sguardo su paesaggi primordiali, tasta il polso al rapporto tra uomo e la natura, solo i pazzi, i presuntuosi e gli ignoranti non cadono sulle ginocchia di fronte a madre terra, mancandole di rispetto. Ecco il ‘sacro’. Anche l’uomo più moderno, recalcitrante verso la religione e i suoi dogmi, è costretto a cedere a ‘geo’, ai suoi capricci e alle sue rivendicazioni. Perlopiù giustissime. E’ lei la più forte. Nell’offesa, nelle sue conseguenze e nel suo imbizzarrirsi.

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La mostra “Le vie del Sacro” resta aperta sino al 24 maggio

A questo proposito l’obiettivo di Nomachi, che ha la sua prima antologica in Occidente, si fissa su tre giovani dal volto color caffè tostato, sorridenti e dal naso camuso, quasi la ‘raza’, tutti e tre vestono un copricapo a tamburello nero e giacche scure dalle maniche cucite con motivi tali da farle sembrare ali di condor. Un uccello leggendario. Ragazzi e credenze, riti e leggende si riversano nell’ex mattatoio, trasformato da luogo di sangue in casa della cultura, dove hanno sede anche una parte del Macro, il museo di arte contemporanea di Roma, la scuola di Musica Popolare e parte delle aule della facoltà di Architettura di Roma Tre. L’architettura industriale incontra le arti, diventa bella, tranquilla e alternativa in una città, attraversata da masse di disperati, homeless e disoccupati che dormono nella sporcizia, in angoli nascosti e impensabili di una metropoli storicamente irripetibile, schizofrenica, sporca e in caduta libera.

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Monica Forti



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