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Da: Alessandra Tuffanelli

 

“Le malattie autoimmuni sono terribili. Perché sono invisibili. Non esistono cause note. I sintomi spesso non sono visibili esternamente. E per questo è difficilissimo riuscire a parlarne. Perché anche amici, parenti, persone a noi vicine che ci vogliono bene, non riescono a capire la sofferenza, la lotta quotidiana che ogni giorno dobbiamo affrontare. Quando il tuo dolore è così nascosto che non vieni creduto. E appari agli altri come un ipocondriaco, o uno a cui piace lamentarsi (“Ma dai, che sei così in forma!). Quando il tentativo di trovare conforto condividendo le tue sofferenze con una persona cara, e dalla quale ti aspetti comprensione, fallisce tristemente (“Non può essere così tremendo, non stai così male.). E così via. Ci siamo capiti. Ma si soffre. E come se di soffre. E la qualità della vita ne è ineludibilmente danneggiata.

Quando poi si tratta di una malattia infiammatoria intestinale parlarne è ancora più difficile, perché all’invisibilità si aggiunge una serie di sintomi troppo imbarazzanti da raccontare, anche alle persone più vicine e in confidenza. E quindi si decide di tacere. Di tenersi tutto dentro. Di patire in silenzio. Arrivando anche a limitare o ad azzerare la propria vita sociale, rinunciando ad incontri, esperienze, momenti di condivisione, di gioia e divertimento, allontanando addirittura gli amici, a causa di questo fardello invisibile.

Se sei affetto da colite ulcerosa parlane, perché insieme si può“. Lo dice Simone Sabbioni, campione e primatista nazionale di nuoto, nello spot per Campagna Sociale sulle Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali girato dal regista Paolo Genovese (link: https://youtu.be/iF5KBXIkvlE). Il messaggio è chiaro. Non avere timore. Non chiuderti in te stesso, rinunciando a curarti e ad avere una qualità di vita dignitosa, quando non soddisfacente. Parlane. Chiedi aiuto.

Ed io sono d’accordissimo con questo messaggio. Condivido questo concetto da ben prima che fosse realizzato questo spot. Da sempre.

E ne ho parlato!

Ne ho parlato mesi fa con il medico curante, alla ricomparsa dei ben noti sintomi dell’acutizzarsi di una patologia purtroppo cronica. Medico che mi ha rilasciato immediatamente l’impegnativa per le necessarie indagini cliniche. Impegnativa di tipo breve, quella che per legge assicura che la prestazione richiesta sia effettuata entro 10 gg dalla richiesta.

Ne ho parlato con il servizio di prenotazioni on line CupWeb, che mi ha risposto “Non ci sono disponibilità nel periodo richiesto” (in tutto il territorio provinciale).

Ne ho parlato con la farmacista di fiducia, abilitata al servizio CUP (non si sa mai che abbia sbagliato io a fare la richiesta via web), che mi ha confermato che non vedeva disponibilità, ma mi ha consigliato di sentire direttamente dal centro servizi della mia USL, non si sa mai…

Ne ho parlato con una gentile operatrice del CUP che era molto dispiaciuta ma non vedeva disponibilità, e mi ha dato il numero di telefono diretto dell’ambulatorio endoscopico dell’ospedale, preposto a tenere l’agenda delle prestazioni urgenti.

Ne ho parlato con la persona che tiene l’agenda delle prestazioni urgenti dell’ambulatorio endoscopico, che mi ha risposto con un bel “Mi dispiace ma siamo pieni” e che alla mia garbata replica “Ma la legge non garantisce che la prestazione sia effettuata entro 10 gg, con questo tipo di richiesta?” ha aggiunto “È vero, ma noi non abbiamo sufficienti strutture e risorse per soddisfare queste richieste. Perché non si rivolge all’URP?”

Ne ho parlato con un’addetta telefonica dell’URP, che mi ha davvero colpita per la sua gentilezza e carineria. Così carina e gentile che, appena inteso l’argomento della chiamata, ha riattaccato senza proferire parola. Diciamo che è caduta la linea, va’!

E così sono ritornata a parlarne con il medico curante, che mi ha rilasciato una nuova impegnativa breve, perché, si sa, dopo una settimana questo tipo di richiesta scade. Che mi ha consigliato di ripetere daccapo il ciclo del “Ne ho parlato con… “, ripetendo il giro degli uffici, che magari, prima o poi… E poi di provare anche con la Casa di Cura di Santa Maria Maddalena (Rovigo).

Ne ho parlato quindi con l’addetta alle prenotazioni della Casa di Cura di Santa Maria Maddalena (perché tutti a dare contro all’amministrazione leghista, ma quando serve una prestazione sanitaria urgente in convenzione con il SSN, tutti a correre di là dal Po) che mi ha trovato la prima disponibilità urgente a oltre 60 gg. Sempre meglio del niente che mi è stato prospettato a Ferrara.

E, forte della nuova impegnativa, ho ricominciato a, parlarne, da capo, purtroppo vanamente, con il sistema ferrarese: l’addetto CUP, il farmacista, il referente dell’ambulatorio endoscopico,…

Ne ho parlato con i medici del pronto soccorso, a cui, alla fine, mi sono rivolta per disperazione, dopo quasi due mesi di questa inutile rumba e la comparsa di sintomi sempre più pesanti e invalidanti, tali da costringermi anche ad assentarmi dal lavoro. Medici che, attenti, comprensivi e gentilissimi, mi hanno rassicurata, organizzandomi un appuntamento urgente con il servizio di gastroenterologia ospedaliera, che mi avrebbe certamente preso in carico e fatto fare tutti gli esami del caso.

Ne ho parlato con la specialista in gastroenterologia, che mi ha visitata rapidamente con fare seccato (come io fossi stata lì appositamente per recarle noia) dopodiché mi ha liquidata rilasciando l’ennesima impegnativa urgente – la quinta (!!!) identica alle precedenti – e al mio garbato tentativo di spiegarle che sarebbe stata inutile, così come le altre già prescritte dal mio medico curante, con aria di sufficienza è salita in cattedra assumendo quegli odiosi modi da maestrina e, come si fa con gli idioti, mi ha spiegato con parole semplici che ciò che le dicevo non poteva essere vero, perché la legge prevede che mi sia garantita la prestazione entro una settimana. E che dovevo andare immediatamente al centro servizi dell’ospedale.. E Bla. Bla. Bla.

Ne ho parlato con l’operatrice del centro servizi che, giustamente, si è risentita non poco quando sono sbottata, all’ennesimo “non abbiamo niente, mi spiace” (chissà quanti nomi si sente dire dietro, ogni giorno, poveretta). Avrei voluto fare due rampe di scale, prendere la maestrina di cui sopra per la collottola, trascinarla lì, e chiederle “chi è l’idiota ora?”. Ma come sempre mi sono mi sono limitata ad incassare l’ennesimo colpo, andandomene silenziosamente e a capo abbassato, non prima però di essermi scusata per lo sfogo e aver ringraziato.

Ne ho (ri)parlato con il medico curante, dal quale son tornata per aggiornarlo degli ultimi eventi e che, allibito ed avvilito quanto me, mi ha informata di aver esaurito i consigli da darmi.

Ne ho parlato con tutti quelli che ho potuto. Ma proprio tutti. Ho esaurito la voce a forza di parlare. E, oltre a quella, ho esaurito anche la fiducia in un sistema che dovrebbe prendersi cura di me, anziché costringermi a vagare inutilmente e senza speranza tra uffici, sportelli e centri servizi. Rimbalzando qua e là come una pallina in un flipper. Elemosinando senza successo ciò che è un mio diritto inviolabile. Venendo anche, non di rado, trattata senza il dovuto rispetto. Tutto ciò affrontato, o forse sarebbe meglio dire subìto, quando ci si trova in condizioni di salute non buone, quando si è più vulnerabili. Ed è talmente avvilente, deprimente, frustrante. Umiliante. Così ora ho deciso che basta. Mi fermo qua. Mi tengo, almeno, la dignità.

E tornando a quello spot che ho citato all’inizio della mia riflessione, pieno di tante belle facce sorridenti e per realizzare il quale Simone Sabbioni, Paolo Genovese e tanti altri si sono messi a disposizione, tutti animati dalle migliori e più sincere intenzioni, agli occhi di persone con una esperienza kafkiana come la mia, lo spot appare più una perculata che un messaggio positivo di speranza. E ad alle protagoniste Emma e Chiara, che sono l’immagine personificata della salute che scoppia, al loro entusiastico “noi non ci sentiamo malate perché siamo in cura” mi verrebbe da rispondere con un bel “Grazia, Graziella e Grazie al…”.

Un’ultima riflessione. Non sono certo la sola a trovarmi in una situazione del genere. Siamo in tanti. Ed al di là dei disagi e delle sofferenze che personalmente ci troviamo a vivere a causa di questi disservizi, mi chiedo, qualcuno è in grado di stimare la ricaduta sulla collettività, in termini di costo sociale, che avrà tutta la serie di patologie acute e gravi, che si presenteranno sul medio e lungo periodo, e che si sarebbero potute in gran parte evitare con un molto più economico servizio di monitoraggio basico finalizzato al mantenimento in remissione di situazioni croniche già note?

Io no. Ma c’è chi si deve occupare di dare le risposte a domande come questa. E il mio pensiero non può che andare ai nuovi vertici dell’Azienda Ospedaliera e dell’Unità Sanitaria Locale di Ferrara. Ne hanno di cosine da sistemare – ereditate frescamente dalla precedente gestione – per poter garantire i servizi che ora sono preposti a governare. A loro a il mio più sincero augurio di buon lavoro, nell’interesse di tutti noi.

Nel frattempo io mi impegnerò a cercare di guarire da sola. Vita sana, alimentazione bilanciata, esercizio fisico, yoga,… Magari funziona. Sicuramente male non mi, farà. E sicuramente non andrò mai più in giro a lamentarmi ed elemosinare. Forse la salute non sarà al 100%. Ma la dignità e la schiena dritta, quelle nessuno me le potrà togliere.

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