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Se la paura agisce sulla libertà limitandola, inibendola, contraendola, di quali paure si tratta? Dopo la “Grande paura” del mondo diviso in blocchi ideologici contrapposti, oggi nuove paure sono sulla scena, meno definibili, ma non per questo meno insinuanti, pericolose, corrosive.
Roberto Escobar, docente di filosofia politica e del linguaggio politico all’Università di Milano, è stato autore di una seguitissima riflessione sul tema ‘Libertà e paura’ alla biblioteca Ariostea venerdì 12 maggio scorso. Tema che rientra nel ciclo di appuntamenti sulla Libertà organizzati e promossi dagli istituti Gramsci e di Storia contemporanea di Ferrara.
Escobar è anche l’autore di ‘Paura e libertà’ (Morlacchi 2009), libro intenso, a tratti spietato, che senza tanti giri di parole va dritto al cuore di argomenti di tremenda attualità.

La scomparsa del nemico frontale novecentesco (non meno produttore di paure, compresa l’atomica con tanto di the day after), lascia il posto a nemici-invasori più subdoli e velenosi.
Le faglie dell’invasione dei migranti e del terrorismo islamico, si dice e si scrive ormai in ogni dove, si scontrano con quelle più endogene di un presente e futuro senza lavoro per troppi e con un welfare che si restringe come certi vestiti usciti dalla lavatrice dopo un lavaggio sbagliato, per fare solo alcuni esempi. Movimenti tettonici che nessuno sa come fermare e che entrano sempre più in collisione tra loro, prefigurando aria da catastrofe.

Terreno fertile per “semplificatori” e “imprenditori del consenso”, li chiama Escobar, che una campagna elettorale dopo l’altra raccontano, martellano e insinuano che le cause delle nostre paure sono semplici e non complesse. Si afferma la politica, post-politica, orgogliosamente affrancata dalla cultura (le gaffes dei politici ormai non si contano), oltre che dalle storiche appartenenze destra-sinistra, ritenute disinvoltamente rottami del passato. Una politica – post-politica – che pone in cima alla propria agenda il tema della sicurezza.
Qui il professore ha opportunamente citato l’esempio recentissimo della legge sulla legittima difesa: una norma – detto in sintesi – per rispondere a una statistica accertata di poco più di 150 casi negli ultimi anni (di cui una quindicina i condannati). Eppure giornali, tv, Parlamento e Paese si sono fermati come se il problema riguardasse tutti i 60 milioni di italiani. Un po’ come d’estate l’annosa differenza tra la temperatura reale e quella percepita.
“E’ così – ha detto il professore – che è al lavoro la macchina della paura, alla quale è possibile rispondere “no” solo se in testa non si ha un’unica storia della realtà, come vogliono i semplificatori, ma tante. Da qui il compito che sarebbe della cultura, della scuola e dell’università”.

Paura, semplificatori e macchina della paura, introducono al tema che Escobar affronta con mani da chirurgo: il male radicale.
Tasto sul quale la riflessione diventa fuoco d’artificio, anche se c’è ben poco da festeggiare, perché “il male radicale – scrive nel suo libro del 2009 – non degrada e non uccide solo in un lager, o in un ghetto, oppure in una fossa comune di una delle tante pulizie etniche, ma degrada altrettanto nell’indifferenza di fronte alla morte lontana e ipotetica di esseri umani cui tocca d’essere sacrificati in vista e nel nome del bene”. E qui “Bene” si può tranquillamente declinare in “i nostri valori”, “le nostre libertà”, “la nostra democrazia”.
Male radicale – per seguire la pista di pensiero dell’autore – non è solo la straordinarietà degli atti mostruosi (che pure destano l’opinione pubblica in sussulti collettivi di sdegno e condanna), ma anche la “normalità quotidiana”, “la buona coscienza – così scrive – degli assassini innocenti”.
Di conseguenza, lungi dal capro espiatorio cui troppo spesso ricorre la storia umana per dimenticare le proprie nefandezze (addossando il fardello della colpa all’agnello sacrificale di turno da presentare al tempio, da mettere in croce, o sopra un patibolo), è invece “la convinzione chiara e netta – richiama Escobar – d’essere nel bene e di operare nel bene che va indagata”.
Il principio guida, orgogliosamente affermato anche in terreno laico, è che “se la vita dell’altro è un valore in sé irrinunciabile, allora non si può mai essere disposti a considerare alcun uomo e donna sacrificabile in nome di qualunque bene”. Punto di partenza solo apparentemente scontato se, in questi tempi, “non occorre – scrive il professore milanese – pensare agli assassini diretti per vedere all’opera l’innocenza omicida”.

Successivo, e consequenziale, passaggio del ragionamento è il lavoro di scavo sull’indifferenza, che non è solo dei cittadini, già ridotti a pubblico di spettatori-telespettatori.
Ogni differenza è sempre il risultato di chi si misuri rispetto a qualcuno o qualcosa; è sempre commisurata rispetto a un elemento altro.
Se si accetta dunque lo stesso criterio di misura, allora le entità differenti sono uguali, nel senso che (per paradosso solo apparente), è la differenza a fondare l’uguaglianza, non l’indifferenza che, in quanto assenza di commisurazione, porta invece alla differenza assoluta.
Il filo del discorso porta diritto alla ricorrente formula dell’identità (da difendere e proteggere dalle invasioni e aggressioni) che, senza più commisurazione, diventa “identicità” in cui massima è la differenza.
Accade cioè che l’indifferenza porta alla negazione dell’uguaglianza.
E’ così che “ben appaesati – scrive l’autore – nella propria normalità, ben certi dell’incommensurabilità del proprio mondo rispetto agli altri mondi oltre i propri confini, uomini e donne finiscano per formare il pubblico degli assassini virtuali, gli stessi che popolano a pieno diritto la terra del bene”.
“Si diventa assassini, ancorché virtuali, – prosegue – in buona coscienza per adesione totale alla verità del proprio mondo incommensurabile, che annulla le singole biografie e differenze nell’indifferenza”.

Un mondo indifferente che si specchia nella propria identità-identicità si fa gravido di nuove paure, alimentate a sua volta dalla macchina della paura. Così, indifferenza, silenzio e presunzione d’innocenza, si nutrono a vicenda in un pericoloso e avvelenato avvitamento, in un cammino di progressiva “corruzione morale”.
Un vero e proprio circolo vizioso in cui il male radicale “monta gradualmente – è il monito – in un accumulo di acquiescenza”.
‘Con le migliori intenzioni’, verrebbe da dire pensando al titolo di un film scritto da Ingmar Bergman (1991), oppure il parallelo corre alla glaciale banalità quotidiana avvolta in un manto di neve immobile, candida e accecante, descritta nel film ‘Fargo’ dei fratelli Coen (1996).
Un circolo vizioso simile a una morsa che si stringe sotto gli occhi (più o meno consapevoli) di tutti, da cui però è ancora possibile uscire, secondo il relatore, perché essere morali non significa essere buoni o innocenti, ma “liberi di scegliere e di mettere in questione”.

E’ ancora possibile non alzare bandiera bianca, per quanto difficile dal momento che la macchina della paura è da tempo al lavoro, se la politica vuole essere governo e non produzione della paura e se la cultura intende sottrarsi al dominio della storia unica, moltiplicando le storie per rendere sempre possibile la scelta, la possibilità di dire “no”.
Per farlo, c’è ancora lo spazio della democrazia, per quanto indebolito e svuotato, nel quale – ha concluso Roberto Escobar – “le teste – questa la novità storica spesso trascurata – si contano invece di tagliarle”

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Francesco Lavezzi

Laurea in Scienze politiche all’Università di Bologna, insegna Sociologia della religione all’Istituto di scienze religiose di Ferrara. Giornalista pubblicista, attualmente lavora all’ufficio stampa della Provincia di Ferrara. Pubblicazioni recenti: “La partecipazione di mons. Natale Mosconi al Concilio Vaticano II” (Ferrara 2013) e “Pepito Sbazzeguti. Cronache semiserie dei nostri tempi” (Ferrara 2013).

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