Marcella Mascellani
Gentilissimo Direttore,
ho avuto l’idea, ma nella raccolta delle testimonianze ho fatto appello a tante voci. Sono le voci delle figlie delle donne di Cabernardi che sono venute a Ferrara quando ha chiuso la miniera.
Una piccola storia di fatica e vittoria. Fatica perchè non era facile farsi accettare dalle altre donne ferraresi, vittoria perchè l’integrazione è avvenuta. Devo quindi dire grazie a Luigina, Mara, Stefania, Caterina, Luciana.
LE DONNE DI CABERNARDI E IL VENTO DI SETTEMBRE
Erano diversi anni che la mia amica Luciana prometteva di ospitarmi nella sua casa a Cabernardi, in provincia di Ancona.
A settembre abbiamo deciso di fare un fine-settimana nella casa che era dei suoi genitori prima che decidessero di trasferirsi a Ferrara perché suo padre potesse andare a lavorare alla Montecatini. Al loro arrivo, nella città estense, li attendevano molti compaesani che si erano già trasferiti al “Villaggio Marchigiani” a Pontelagoscuro, formato da una serie di case a schiera che si sviluppavano in orizzontale fino al confine con il quartiere del “Barco”.
I primi marchigiani erano arrivati nel 1952 in un paese completamente distrutto dalla guerra. Nel 1959 i poli estrattivi di Cabernardi chiusero definitivamente e con loro terminò il trasferimento al paese ferrarese.
La Montecatini si occupò di tutto, ma alcuni lavoratori, tra i quali anche suo padre, non poterono trasferirsi presso il villaggio perché ormai non c’erano più case disponibili. Trovavano quindi un’altra abitazione; accadeva comunque che l’intero palazzo dove trovavano dimora, fosse abitato da marchigiani.
Da ragazza mi piaceva frequentare la casa di Luciana. Era sede di accoglienza ed operosità. Le donne marchigiane si raggruppavano per fare i cappelletti, la pizza al formaggio, di tradizione pasquale assieme alle uova benedette, o per cucire. Era abitudine aggregarsi ora in una casa ora in un’altra con un ordine prestabilito da un annoso rituale. Quando la bella stagione lo consentiva, indossando sopra i vestiti il grembiule con la pettorina (zinale), si sedevano, facendosi compagnia, lungo i gradini esterni delle case del villaggio per chiaccherare, ma le loro mani non erano mai ferme.
Nel periodo della cardatura della lana tutte le siepi si tingevano di bianco. La lana andava lavata, asciugata e lavorata. Si rifacevano, poi, i materassi.
Quando era il momento previsto per preparare la conserva di pomodoro, con grandi pentoloni all’esterno nei cortili comuni, le donne marchigiane preparavano una prelibatezza che avrebbe condito i piatti durante il periodo invernale.
Le amiche di Luciana mi raccontano che quando moriva una persona del villaggio gli adulti si riunivano in preghiera per la veglia.
Un rispettoso saluto corale per chi sarebbe tornato nella propria terra.
Accadeva ogni tanto la domenica che mia mamma mi mandasse a comperare il pollo arrosto alla rosticceria di Mimma, in Corso del Popolo. Mimma era la zia di Luciana.
Mi chiedevo dove trovasse la forza quella donna, dotata di lungimiranza imprenditoriale, minuta, energica e veloce che serviva i clienti che si alternavano in una frettolosa sequenza. La sua fu una delle prime rosticcerie presenti sul territorio ferrarese.
Vicinissime al paese marchigiano Luciana mi fa notare alberi addobbati di oggetti vari. L’albero chiamato “Maggio” annuncia una nascita e gli oggetti (in genere piccoli giocattoli) si differenziano a seconda che il nuovo nato sia maschio o femmina. A Pontelagoscuro, da alcuni anni, si festeggia il “Maggio Pontesano”.
La Festa del Maggio, di origine marchigiana, coinvolge tutta la comunità ferrarese ed è forse l’esempio più evidente della raggiunta integrazione.
Arriviamo a casa della mia amica; davanti ai miei occhi una vallata, uno spettacolo di paesaggio.
Il sole, il silenzio, il senso di infinito, mi fanno godere di quella benedizione divina.
Mi guardo intorno meravigliandomi che il paesaggio non corrispondeva alla descrizione di Imola, la mamma di Luciana. Mi diceva “Marcè lassù ormai non c’è più gnente” con quella inflessione dialettale marchigiana che conoscevo bene avendo una nonna di Fano.
Imola si sbagliava, e se fosse ancora viva le direi che mi ha detto una bugia: forse quello era il luogo più vicino all’infinito che avevo mai visto in vita mia.
Luciana mi chiede se voglio andare al cimitero. Le rispondo di si. Voglio rendere omaggio alla sua cara mamma. Mi mostra le tombe dei genitori di donne che sono a loro volta mie amiche e vivono a Ferrara. Rifletto sul fatto che alla fine del proprio percorso di vita si cerca di tornare alle origini, nella propria terra, ed è su quei muri di Cabernardi che quelle persone hanno scelto di affidare l’eterno loro ricordo.
Il tempo è poco, voglio vedere dove si trasferisce durante l’estate Liliana, altra memoria storica di quel tempo, che vive vicino a Luciana a Pontelagoscuro.
Visitiamo, quindi, Caudino, facciamo alcune foto. Il paese è completamente vuoto.
La sera al circolo Acli, al quale ancora oggi è affidato il momento conviviale del paese, saluto Nunziatina che rivedrò, poi, a Pontelagoscuro. Una figlia vive nelle Marche, l’altra a Ferrara.
Cosi è la vita a volte, un pezzo di cuore di qua e un pezzo di là.
Quando arriva il vento di settembre le donne di Cabernardi sanno che è tempo di andare, tornare in quella città un po’ loro un po’ no.
Quella città che non le ha escluse dalla lotta per farsi accettare, per far crescere i propri figli, per far si che studiassero, che si sposassero, che le figlie lavorassero fuori casa, che fossero il riscatto del sudore della fronte che si erano asciugate le loro madri.
Chiudono le loro case con forza, assicurando le imposte, girando più volte la chiave nella serratura con la certezza che la nostalgia di una vita-ricordo le accompagnerà durante il lungo inverno ferrarese, nella speranza di tornare l’anno successivo.
di Marcella Mascellani
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