E’ un viaggio nella memoria, quello di Dova Cahan: la memoria di un’esistenza complessa ma affascinante, di una famiglia unita che ha dovuto affrontare difficoltà e traversie, ma sempre con coraggio, amore, unione e fiducia nell’avventura della vita. Dova è nata a Bucarest, in Romania, il 17 giugno 1947, e nel suo libro “Un askenazita tra Romania ed Eritrea”, ripercorre la storia della sua famiglia, fin dal suo trasferimento, all’eta’ di sette mesi, ad Asmara, in Eritrea, dove vive per una ventina d’anni, prima di trasferirsi in Israele. La figura centrale, cui è dedicato il libro, è quella del padre Herscu Saim (1912-1974), nato a Ivesti, piccolo centro della Moldavia, in piena campagna orientale rumena, sulla strada Tecuci-Galati. Un sionista, un filantropo, un uomo grande, un eroe, un mito, come lo presenta la stessa Dova, figlia orgogliosa e da lungo tempo impegnata nel ricostruire la storia di un genitore dall’esistenza piena e generosa. In un gesto che è un autentico atto d’amore, si ripercorre la storia dell’ebraismo in Romania, dagli arrivi tra il XV e il XVI secolo dalla Spagna (gli askenaziti sono arrivati, invece, dalla vicina Russia e dalla Moldavia a partire dal 1870) fino all’arruolamento nella guerra di indipendenza per la riconquista della Dobrugia settentrionale o nella seconda guerra per l’unificazione della Romania con la Transilvania e la Bessarabia. Ma sempre immersi nei pregiudizi verso la comunità ebraica, mai fondamentalmente accettata nel paese, pur considerato culla del sionismo (patria, fra gli altri, di Elie Wiesel, Eugen Ionescu, Emil Cioran e Mircea Eliade). Al centro di tutto l’amato padre, un uomo coraggioso sempre prodigatosi per il bene della comunità ebraica, prima in Romania, poi in Eritrea, riuscendo a tramandare nelle figlie, Dova e Lisa, l’ideale sionista che ha ispirato tutta la sua vita: “il sionismo per lui significava il cammino verso nuove condizioni spirituali ed emozionali”. Un uomo che si impegna per la salvezza degli ebrei in un’epoca caratterizzata dalle persecuzioni delle Guardie di Ferro del maresciallo filo-nazista Antonescu, che insegue ideali realizzandoli, che in casa non parla del freddo dei lavori forzati del 1938 o del nazismo. Un personaggio che è una colonna.
Finita la guerra, il breve periodo di prosperità economica in Romania è interrotto dall’avvento al potere dei comunisti nell’aprile del 1948. Inizia allora l’odissea della famiglia Cahan, che lascia la Romania con “la speranza di riuscire a seguire l’ideale sionista di recarsi in Palestina” e giunge in Eritrea dove, nel febbraio 1948, si stabilisce ad Asmara, calda colonia italiana dalla fine del 1800, rifugio per tanti italiani “in una insolita convivenza tra vincitori e vinti”, anche dopo la partenza degli inglesi e quando nel 1951 viene affidata dalle Nazioni Unite all’Etiopia. C’e’ parte della nostra storia in queste pagine, una parte poco nota a tanti. Aiutato inizialmente dal cognato, che con la moglie Lea vive ad Asmara, papà Herşcu si impegna nel mondo degli affari. Dopo essersi occupato di importazione di tè da Ceylon, di carta di cancelleria inglese e di altri prodotti, fonda una fabbrica di carne in scatola, carne congelata e sottoprodotti: la Emco, che offre opportunità di lavoro a molti operai. Infine, insieme al cognato Boris e a Yacov Meridor, si dedica al progetto Incode, una produzione innovativa di carne in scatola kasher da esportare in Israele. Il padre diventa così elemento importante della comunità ebraica di Eritrea oltre che rappresentante di rilievo nel Congresso sionista. Ma purtroppo, alla tanto attesa partenza per Israele il 3 marzo 1974 Herşcu muore all’improvviso per un collasso cardiaco. Se dal 1967, anno in cui Lisa e Dova si trasferiscono in Israele, i viaggi in Eritrea erano continuati, quel lutto li interrompe. Ma quegli anni hanno lasciato un grande segno nella vita di Dova, che racconta con emozione e nostalgia episodi e luoghi di una giovinezza serena.
Sembra di ripercorrere con lei il Corso Italia è il suo “indimenticabile Bar Rex, ritrovo dove si andava la domenica a prendere il gelato o il caffè, o il tè del pomeriggio, sedute al tavolino nella grande sala interna…”. Pagine di storia che parlano al cuore. In Israele, Dova si laurea in inglese e francese all’Università di Tel Aviv e segue tutti i momenti e le tappe dello Stato ebraico, le guerre, il terrorismo fino all’ultimo conflitto in Libano del 2006.
Un bel libro di storia e di commoventi momenti, come il ricordo della madre Ester, la tipica Yiddishe mame che, ricorda l’autrice, “ci ha dato la formazione ebraica, la dirittura morale e quella religiosa della kasherut che ancora oggi ci animano”, o il bel legame la sorella Lisa, scomparsa nel 2011. Dova non è una storica, ma racconta, con la consulenza di Marco Cavallarin e la sua continua ricerca della radici (nel libro vi sono molte fotografie d’epoche interessanti), momenti del mondo che vale la pena ricordare e conoscere. All’ombra delle palme di Asmara che oggi sembrano solo cresciute.
Dova Cahan, Un askenazita tra Romania ed Eritrea, GDS edizioni, 2010, 167 p.
Il libro verrà presentato dall’autrice il 1 giugno alle ore 17 presso la Collezione-Museo di Mario Piva in via Cisterna del Follo, 39. Verranno anche proiettati due documentari sulla Shoah della stessa regista Dova Cahan, insieme a Laura Rossi curatrice della Collezione.
Sinossi del Documentario “Mia zia Mina e suo figlio Shmuel non tornarono mai piu’ da Auschwitz” (2015), durata (video): 9.18 minuti. Musica : At Rest – Royalty Free – Kevin MacLeod (2010)
Il film racconta la storia della sorella maggiore della madre di Dova, Mina Segal in Hagher e di suo figlio Shmuel, che vissero a Oradea, in Transilvania, parte dell’Ungheria durante la Seconda Guerra Mondiale. I genitori di Mina provenivano da una piccola città della Moldavia, nel nord della Romania. Anche se le SS della Germania nazista non furono presenti nel paese, questo era alleato del generale rumeno Ion Antonescu, che con suoi legionari perpetrò numerosi stermini antisemiti. Negli anni 1935-1936, la zia Mina incontrò un ragazzo ebreo di Oradea che venne a studiare li’ ortodonzia. Innamorati si sposarono e si trasferirono a vivere nella sua città. La giovane coppia ebbe un unico figlio Shmuel, che aveva solo cinque anni, quando insieme alla madre quasi verso la fine della guerra furono trasferiti ad Auschwitz e da lì non tornarono più. La nonna Sabina fece grandi sforzi per portarli a Bucarest, dove la famiglia si trasferì negli anni 1938-39, ma Mina si rifiuto’ perché voleva restare a casa con Shmuel ad aspettare il marito Izi, che, essendo dentista, era stato mandato ai lavori forzati e non ai campi di concentramento. Nel 1944 in Ungheria Adolf Eichmann iniziò a organizzare il trasporto degli ebrei nei campi di sterminio ed Oradea divenne “Judenfrei”, ossia “Senza Ebrei”. Nel 1945, alla fine della guerra, quando Izi tornò a casa, la trovò vuota e chiusa e la vicina gli disse che la moglie e il figlio erano stati catturati dai nazisti. Oggi le uniche cose rimaste sono le due pagine di testimonianza che la madre della regista ha riempito a Yad Vashem, a Gerusalemme, la casa permanente di tutte le vittime dell’Olocausto.
Sinossi del Documentario : “La mia Visita a Ferramonti di Tarsia” 2016, durata (video): 12.19 minuti, Musica : Cattalis – Royalty Free – Kevin MacLeod (2010)
Nel mese di ottobre 2015, Dova Cahan e’ stata per la prima volta in Calabria per la presentazione del suo libro. Con l’occasione ha voluto anche visitare il primo campo di internamento del periodo fascista che si trova a Ferramonti di Tarsia, in provincia di Cosenza. A determinarla nella visita è stato l’incontro in sinagoga, pochi giorni prima della partenza, con un vecchio amico di famiglia. Dopo una breve conversazione sul suo prossimo viaggio proprio in Calabria, lui ha insistito per farle visitare il campo. Dova ignorava che quell’amico era un ex-internato di Ferramonti. Il film e’ basato sulla descrizione del campo da parte della responsabile del museo con, a seguire, la visita alle tre baracche. La prima baracca contiene il Museo della Memoria, che mette in rilievo fotografie di quei giorni di prigionia degli internati e anche dei tanti bambini che allora si trovavano li’. Nella seconda baracca c’erano i dormitori degli internati, che appena arrivati al campo e registrati ricevevano due cavalletti di legno, tre assi e un materasso. Nel giardino c’e’ anche un cedro a memoria della Brigata Ebraica che contribuì alla liberazione dell’Italia dal Nazifascismo.
La terza baracca ancora in costruzione riporta una miniatura di ciò che era allora il campo. Seguono due interviste: una a Cosenza alla figlia di un internato di Ferramonti e l’altra, a Tel Aviv, all’amico di famiglia che si trovava su naviglio “Pentcho” naufragato a Rodi e poi portato con altri 500 ebrei nel Campo di Internamento a Ferramonti.
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Simonetta Sandri
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