di Zineb Zaini
Dopo Bin Laden, l’autoproclamatosi Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (l’acronimo anglofono è Isil, mentre nel mondo arabo il gruppo è conosciuto come “Daesh”) è la più grande spina nel fianco del mondo musulmano.
Per chi si intende di scienza politica i due non sono affatto indipendenti l’uno dall’altro. Anche se l’Isis non ha niente a che vedere con i Taliban di Bin Laden, in una catena di eventi uno ha provocato l’esistenza dell’altro. Per l’occhio comune, invece, questi non sono altro che aspetti terrorizzanti della stessa medaglia: l’islam (secondo la stessa logica a questi si aggiungono anche i fatti di Parigi).
Le differenze tra Bin Laden e l’Isis sono, però, molto importanti per capire una situazione che non si presta ad una facile comprensione. Per prima cosa Bin Laden e i Taliban ce l’avevano esclusivamente con l’occidente. Il nemico era (è) chiaro: la politica occidentale percepita come invasiva e corruttiva del proprio potere territoriale, mista alla frustrazione di un mondo arabo di cui l’arretratezza economica è percepita come risultato di secoli di colonizzazione occidentale.
Questa rabbia è dunque quasi sempre stata indirizzata verso questo nemico, e proprio per questo è riuscito a raccogliere simpatizzanti – anche se non tutti attivi in questa guerra – da una gran fetta del mondo arabo musulmano.
Lo stato islamico, invece, è la diretta conseguenza della divisione della regione araba che il terrorismo talebano, e le risposte contro di esso, hanno creato, non dimenticando anche il ruolo svolto dalle primavere arabe e dalla guerra siriana.
Per l’Isis il nemico non è quindi l’occidente, per lo meno non è quello principale, perché prima deve fare i conti con il mondo stesso da cui proviene, cioè il mondo arabo musulmano. La sua è una guerra ideologica più che politica, e proprio per questo non ha limiti. Il suo interesse politico si ferma dove crede che inizi il suo interesse ideologico, quindi, invece che cedere a ricatti o a scambi, preferisce riservare ai suoi prigionieri musulmani le morti più atroci.
Lo stato islamico, infatti, per sopravvivere necessita di incutere terrore e senso di impotenza nei suoi avversari musulmani, cosi che abbiano ben chiara la sorte di chi si oppone alla sua ideologia.
L’ultima esecuzione dell’Isis prova che la teoria della banalità del male, introdotta da Hannah Arendt come spiegazione alla routinizzazione dell’eliminazione della popolazione ebraica europea da parte dei burocrati nazisti, non si attaglia al caso in questione.
La violenza dell’Isis non è banale, bruciare vivo un prigioniero e rendere tutto ciò spettacolare come un film hollywoodiano mira a shockare e non a rendere il male sistematico, quasi normale, come nel caso dei nazisti. E proprio perché questo male non è banale, probabilmente nel prossimo futuro verremo shockati ulteriormente.
I musulmani non sono simpatizzanti dell’Isis, se lo fossero andrebbero contro la propria coscienza di fede e contro la propria stessa sicurezza futura. I musulmani, soprattutto quelli europei, sono consapevoli dell’opportunità che la vita in Europa offre, non la scambierebbero per il rischio che l’Isis incarna. Se qualcuno lo ha fatto o lo farebbe, studiarne i motivi e gli scopi sarebbe utile per cercar di prevenire tragedie come quelle di Parigi; ma la maggior parte non è interessata, anche perché assecondando il fondamentalismo rinnegherebbe i principi della propria religione, testimoniati dal credo di due miliardi e mezzo di persone.
* Zineb Naini, laureata in Scienze Politiche all’Università di Bologna, è ricercatrice in politiche anti-terrorismo e violazione dei diritti umani. Collabora con il magazine on-line Mier Magazine
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