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Un fantasma si aggira nelle nostre società opulente flagellate dalla crisi; aveva accompagnato lo sviluppo industriale e si ripresenta oggi in forme nuove, spesso non immediatamente accessibili al senso comune: è il timore che la tecnologia, le macchine, possano distruggere il lavoro e l’occupazione, lasciando fasce di popolazione sempre più ampie in balia della miseria. Fino a qualche anno fa si guardava con sufficienza e qualche facile sarcasmo alle rivolte dei luddisti nell’Inghilterra del XIX secolo, ritenute col senno di poi, ovvero dopo che furono migliorate le condizioni economiche e sociali, infondate e basate su paure irrazionali.

Oggi, il dubbio che le nuove tecnologie digitali, pur garantendo sviluppi tutti da esplorare ed ancora oscuri ai non iniziati, possano anche distruggere occupazione in modo irreversibile, sta prendendo nuovamente piede; questa preoccupazione professata da autorevoli esperti, che la danno come prospettiva assolutamente probabile, per non dire quasi certa, si contrappone a quella galassia tecno-visionaria ed utopica che preconizza per l’effetto delle tecnologie le più fantastiche evoluzioni della razza umana. Effettivamente, negli ultimi due secoli, lo sviluppo tecnologico ha contribuito ad alimentare le condizioni che hanno migliorato la qualità della vita di molte nazioni e la tecnologia ha grandemente contribuito a spostare milioni di persone dal settore agricolo a quello industriale, poi da questo a quello dei servizi. Ora, le nuove tecnologie digitali, in rapida diffusione, hanno alcune caratteristiche distintive rispetto alle tecnologie che hanno animato le precedenti rivoluzioni industriali che, in estrema e forzata sintesi, hanno sostituito il lavoro manuale con quello meccanico: da un lato, esse si reggono su una gigantesca struttura fisica tangibile, dall’altro, possono essere utilizzate per razionalizzare e gestire in modo intelligente qualsiasi tipo di processo in ogni settore: dalle catene di fornitura globale ai processi di apprendimento, dalla medicina alla ricerca aerospaziale, dallo sport al turismo, dall’autodiagnosi alla riparazione delle sue stesse componenti. Infine, sono sempre più spesso in grado di simulare e riprodurre operazioni che, fino a poco tempo fa, si pensava fossero attributi del cervello e patrimonio esclusivo della cognizione umana. Superata questa soglia, messo sotto esame il comportamento del cervello, avviata una ricerca massiva sull’intelligenza artificiale, agganciato stabilmente il comportamento umano alle applicazioni tecnologiche, si aprono scenari che, ad un tempo, esaltano e preoccupano. La domanda diventa dunque quanto mai attuale: la tecnologia digitale crea o distrugge lavoro? Oppure, semplicemente, trasloca l’occupazione spiazzando quote crescenti di lavoratori che rischiano così di essere espulsi dai processi di consumo e di creazione di valore?

Lasciamo un attimo in sospeso questa domanda per analizzare brevemente il nostro rapporto con queste tecnologie ed alcune conseguenze che ne derivano. Noi tutti infatti siamo abituati a cogliere solo un lato del problema: quello che ci vede come fruitori, come utilizzatori di dispositivi e consumatori di informazioni che ci vengono presentate ora gratuitamente ora a pagamento, a volte richieste a volte subite nostro malgrado. In questo preciso momento ognuno di noi è connesso ad un dispositivo digitale collegato in rete (altrimenti caro lettore non potresti leggere questo articolo). Per il semplice fatto di essere connessi stiamo fornendo informazioni al sistema: lo facciamo quando telefoniamo da qualsiasi dispositivo, quando usiamo il navigatore dell’auto, quando facciamo zapping in tv o quando ci sintonizziamo su una stazione radio. Lo facciamo quando usiamo il bancomat o la carta di credito e quando scarichiamo ed usiamo una qualsiasi app. Forniamo informazioni quando entriamo ed usciamo dall’autostrada usando il telepass, quando facciamo acquisti online o quando usiamo una tessera fedeltà o quando usiamo i social network. Certo, in alcuni casi paghiamo e, in cambio, riceviamo servizi che a volte ci semplificano la vita; in altri casi, non paghiamo nulla ignorando però che la nostra partecipazione gratuita è l’elemento chiave per generare enormi profitti. Non solo ne siamo consapevoli, ma forniamo informazioni ogni volta che passiamo sotto l’occhio di una telecamera di videosorveglianza ed ogni volta che usiamo la nostra tessera sanitaria; quando attraversiamo il tornello della metropolitana o prendiamo posto su un treno o un aereo. Finora tutte queste informazioni erano archiviate su supporti poco interattivi, sostanzialmente isolate tra di loro: la tecnologia digitale consente ora, con sempre maggiore facilità, di collegarli e renderli facilmente accessibili. Ma non solo. L’internet delle cose sta collegando sempre più strutture ed oggetti in gigantesche reti che producono quantità immense di dati digitali, rendendo possibile una realtà aumentata che arricchisce l’esperienza dei sensi incorporando informazione aggiuntiva in forma digitale. Su piccola scala lo vediamo nei Google glass, nelle applicazioni domotiche e, crescendo di livello, nelle applicazioni industriali di workflow management, nelle tecnologie di traffico intelligente, nelle nascenti smart city, negli ecosistemi militari, nella rete di calcolatori che gestiscono la finanza globale.

Da un lato, dunque si sta costruendo un nuovo ambiente di vita, digitale e digitalizzato, intelligente, caratterizzato da una sensoristica estremamente diffusa che raccoglie informazioni in modo sempre più automatico, depositandola in database sempre più capienti, numerosi ed interconnessi; dall’altro le macchine d’uso comune diventano sempre più intelligenti ed interagiscono sempre meglio con questo ambiente anche a prescindere dalle nostre decisioni. Infine noi stessi offriamo continuamente informazioni a questo ambiente attraverso i nostri comportamenti quotidiani e non solo per il fatto di essere connessi consapevolmente alla rete internet che conosciamo. Le tecnologie digitali consentono di valorizzare tutto questo moltiplicando esponenzialmente la produzione di informazione, rendendo informazioni inutilizzabili immediatamente disponibili, annullando i costi della raccolta di informazione e, in ultima istanza, conferendo valore d’uso enorme a qualcosa che prima, pur potenzialmente presente, non poteva essere utilizzato facilmente. Ovviamente questo è possibile se esistono le infrastrutture per farlo e se i cittadini continuano a funzionare come comoda fonte di informazione. Si tratta, a ben vedere, di una situazione senza precedenti che, per certi versi, ribalta la consolidata logica di un mercato dove ogni cosa ha un prezzo riconoscibile; dietro l’uso gratuito di molta tecnologia di comunicazione vediamo infatti la realtà, piuttosto inquietante per alcuni versi, di un sistema dove noi stessi (o meglio tutte le nostre scelte e comportamenti) siamo la merce che viene venduta. Big data è il nome attraverso cui si riconosce il nuovo campo disciplinare destinato a governare questa immensa mole di informazioni digitali attraverso la potenza computazionale dei calcolatori (computer).

Tutto questo pone ovviamente davanti a sfide gigantesche non ultima quella del lavoro che qui ci interessa. E’ assai probabile infatti che l’applicazione massiccia delle tecnologie digitali porterà all’abbattimento di moltissimi posti di lavoro anche nel settore dei servizi (inteso in senso allargato), seguendo il medesimo trend di quanto successo nell’agricoltura prima e nell’industria poi. Porterà anche ad aprire nuovi settori occupazionali tutti da esplorare e ad alto contenuto di innovazione e creatività, che con ogni probabilità potranno premiare solo le persone più competenti e preparate. Forse, spingerà anche molte persone a guardare con rinnovato interesse ad attività più semplici e naturali, magari facendo impresa innovativa in campo culturale o nel settore agroalimentare che rappresentano pur sempre delle autentica eccellenze italiane. Che ne sarà tuttavia della centralità del lavoro come strumento principe per la costruzione dell’identità e giusto mezzo per guadagnare da vivere? E come conciliare questa situazione con i valori fondativi della nostra Carta Costituzionale? Il documento fondativo del patto sociale su cui si regge la nostra democrazia all’articolo 1 dichiara infatti che:

“L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della costituzione”.

Con tali domande lasciamo anche questo scenario possibile, per prendere in esame un’altra vecchia idea, forse poco conosciuta, che sembra conservare una forte carica utopica: quella del reddito di cittadinanza, nozione che a volte e frettolosamente vene considerata equivalente a reddito di base o reddito minimo universale. In verità, esiste più di una differenza tra reddito di cittadinanza e reddito minimo anche se entrambe condividono la prospettiva comune di non abbandonare nessuno al proprio destino: il primo, infatti, richiama il valore etico dell’accesso universale ai frutti delle risorse comuni; il secondo, invece, è selettivo e rimanda al valore del contrasto alla povertà essendo direttamente connesso alla disponibilità di lavoro e di reddito. Come noto, si tratta di un’erogazione monetaria garantita ad intervalli di tempo regolari e per tutta la vita di una persona. Viene riconosciuta a tutti coloro che hanno cittadinanza e residenza, per consentire una vita minima dignitosa; l’erogazione è cumulabile con altri redditi derivanti da lavoro, da impresa e da rendita ed è indipendente dal tipo di attività lavorativa, dalla nazionalità, dall’orientamento sessuale, dal credo religioso e dalla posizione sociale.

In un mondo caratterizzato da un surplus di produzione che impone una sfrenata corsa al consumo, in un contesto che pone forti interrogativi circa la proprietà e l’uso degli enormi archivi di informazioni digitali, dove l’informazione è importante, largamente disponibile poiché largamente prodotta dai comportamenti dei cittadini digitalizzati e fortemente manipolabile, dove aumentano di pari passo la concentrazione della ricchezza e la povertà, dove la piena occupazione è ormai un miraggio, l’idea di un reddito di cittadinanza universale sembra essere pertinente al di là di ogni doverosa considerazione di tipo morale. In assenza di alternative sostenibili, non si può escludere neppure che tale soluzione diventi, in prospettiva, socialmente necessaria se solo pensiamo al potenziale esplosivo connesso ad una forte disoccupazione a fronte della crescente forbice tra ricchi e poveri, effetto non secondario dall’ultima ed attuale fase del capitalismo sostenuto dalle nuove tecnologie.

In aggiunta alle motivazioni di ordine etico e sociale, possiamo dunque pensare che i cittadini ricevano un trasferimento monetario (anche) per il semplice fatto di fornire comunque informazioni indispensabili al sistema anziché pagare per ottenerne i servizi? In uno scenario caratterizzato, se non dalla fine del lavoro, quantomeno da una sua fortissima crisi, può essere il reddito di cittadinanza la soluzione capace di semplificare e rilanciare il sistema di welfare, garantire la copertura dei bisogni essenziali, salvaguardare gli spazi di intrapresa e produrre quel minimo di giustizia sociale che il vecchio modello non sembra più in grado di garantire?

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Bruno Vigilio Turra

È sociologo laureato a Trento. Per lavoro e per passione è consulente strategico e valutatore di piani, programmi e progetti; è stato partner di imprese di ricerca e consulenza e segretario della Associazione italiana di valutazione. A Bolzano ha avuto la fortuna di sviluppare il primo progetto di miglioramento organizzativo di una Procura della Repubblica in Italia. Attualmente libero professionista è particolarmente interessato alle dinamiche di apprendimento, all’innovazione sociale, alle nuove tecnologie e al loro impatto sulla società. Lavora in tutta Italia e per scelta vive tra Ferrara e le Dolomiti trentine.


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