Sfogliando i giornali dello scorso mese spesso può essere capitato di imbattersi in frasi del tipo “Nel terzo trimestre del 2015 la crescita economica mondiale ha avuto un calo, questo soprattutto a causa del rallentamento dei mercati emergenti e in particolare alla crisi cinese; tuttavia si registrano buone performances delle economie europea e americana”. Varrebbe la pena domandarsi se si può considerare “emergente” un’economia la cui crisi è in grado non solo di rallentare la crescita globale, ma anche di creare una certa dose di panico sui mercati finanziari planetari. Bisogna fra l’altro dire che le grandi aspettative dei Paesi che si sono affacciati ai mercati internazionali con il titolo di “emergenti” sono state quasi sempre disattese, si pensi al caso del Brasile o dell’India i quali, al fianco del caso particolare della Russia, erano inseriti assieme alla Cina in quelli che venivano chiamati ‘Bric’, che, semplificando, altro non erano che “economie sottosviluppate in forte crescita e dalle quali ci si aspettava molto”. Solo la Cina ha però avuto uno sviluppo vigoroso al tal punto da spostare gli equilibri economici mondiali, appare quindi ovvio che l’economia cinese, che produce il 15% del Pil mondiale, non possa più essere considerata come “emergente”. Molti tuttavia si interrogano sul perché la Cina abbia avuto uno sviluppo così impetuoso e sul perché gli altri Paesi presi in considerazione sembrino avere in qualche modo esaurito la spinta.
Uno dei più grandi contributi proposti in campo economico per quanto riguarda lo studio dello sviluppo dei Paesi economicamente arretrati è quello di Karl Gunnar Myrdal pubblicato nel libro “Economic Theory and Underdeveloped Regions” nel 1957. In tale pubblicazione egli sosteneva, in forte contrasto con la visione consacrata dal filone economico neoclassico all’epoca (e in parte anche tuttora) in auge, che l’economia nel suo insieme non tendesse al cosiddetto equilibrio di lungo periodo, ma che essa fosse intrinsecamente predisposta al disequilibrio, e che fosse proprio questo, una volta usciti da un iniziale “stato stazionario” a far scattare le leve trainanti dello sviluppo.
Spesso si sente parlare, per le persone come per le città o per gli Stati, del fatto che il ricco sia diventato più ricco e il povero più povero, generando quell’insieme di stupore e rabbia che in breve tempo si trasforma in malinconica rassegnazione. Un esempio pratico di questo fenomeno può essere constatato dalla recente crisi economica (quella americana ed europea), che ha avuto, fra i suoi effetti, un grande aumento della polarizzazione sociale. Ma si può constatare anche prendendo ad esempio un Paese avanzato e un Paese in ritardo di sviluppo. Osservati questi Paesi com’erano trent’anni fa e come da allora questi si siano trasformati fino ad oggi apparirà evidente, nella stragrande maggioranza dei casi, il grande progresso del primo e il limitatissimo, alle volte inesistente, progresso del secondo. Probabilmente anche per il Paese in partenza sottosviluppato le condizioni sono migliorate, ma la forbice fra i due si sarà allargata, la polarizzazione aumentata.
“Di solito – scriveva Myrdall – il cambiamento provoca cambiamenti non in senso contrario ma, allʼopposto, continuamente complementari, i quali spingono il sistema nella stessa direzione del cambiamento primario ma vanno molto più in là di esso”, in pratica un circolo del disequilibrio virtuoso.
Lo sviluppo si autosostiene, non solo, come molti sarebbero portati a pensare, grazie agli effetti esponenziali dovuti al progresso della tecnologia (si pensi a riguardo a com’erano i computer di 15 anni fa e a come sono gli smartphone di oggi), ma anche grazie a due evidenze sociali che Myrdall definisce “effetto di riflusso” ed “effetto di diffusione”: dato un Paese sviluppato, il primo effetto è quello che genera cambiamenti negativi nel paese sottosviluppato, il secondo quello che vi genera effetti positivi. Un esempio di effetto di riflusso può essere l’attrattiva che il Paese sviluppato esercita sui lavoratori, soprattutto giovani, di quello sottosviluppato, generando un flusso migratorio che priva il Paese già in ritardo di sviluppo della sua linfa vitale: la forza lavoro giovane. Il secondo può invece essere dovuto ad una maggiore domanda di beni proveniente dal Paese sviluppato con conseguente aumento delle esportazioni da parte del Paese sottosviluppato; e qui Myrdal ci avverte: “in nessun caso gli effetti di diffusione danno luogo ai presupposti per un’analisi in termini di equilibrio” e, parafrasando, l’effetto di riflusso risulta essere in ogni caso maggiore dell’effetto diffusione. La forbice, insomma, continua ad allargarsi.
Le prospettive economiche sembrano essere fosche per quegli stati che si trovassero in ritardo a intraprendere la via dello sviluppo, bloccati in un circolo vizioso che li conduce a guardare i benestanti sempre più da lontano. Tuttavia è lo stesso Myrdal a individuare una via d’uscita da questa situazione: lo Stato. Questo, “rompendo il circolo vizioso e creando le premesse per un processo cumulativo crescente non si sostituirà alla libera iniziativa, ma ne aumenterà lo spazio e le possibilità”. Si tratterebbe quindi di un interventismo attivo volto a stimolare l’iniziativa delle persone, a limitare i danni causati dall’effetto riflusso e alla creazione di investimenti con lo scopo di generare una crescita rapida e dinamica, tutt’altro che equilibrata.
Si tratta esattamente di ciò che è avvenuto in Cina, dove un misto di pianificazione economica e pianificazione sociale con obiettivi di lungo periodo, assecondati da enormi investimenti nazionali ed esteri, questi ultimi incentivati dal governo cinese tramite consistenti sgravi fiscali, hanno portato a risultati eccezionali dal punto di vista del bilancio dello Stato; tanto che non appare più assurdo il parallelo fra la Cina odierna e l’Inghilterra della Rivoluzione Industriale: la Cina è oggi “l’officina del mondo”.
Certo, non tutto è oro quel che luccica: nel Paese asiatico i diritti dei lavoratori sono minimi, l’informazione è tutt’altro che imparziale e la democrazia ha lo stampo più autoritario del mondo. Spesso, proprio al fine di perseguire la crescita economica sono stati trascurati i diritti umani, basti pensare che in Cina a ogni coppia è concesso avere un unico figlio al fine di evitare un’esplosione demografica tale da bloccare il buon andamento economico e che le persone, nella veste di lavoratori, nonché di artefici materiali della crescita, si trovano ad essere le ultime a riceverne i benefici anche in termini economici.
Tuttavia la Cina è riuscita ad interrompere e ad invertire il circolo vizioso della povertà in cui si trovava e ad emergere fra le tutte le consolidate economie fino a prendere le redini della crescita economica globale. Paradossalmente è la crisi stessa in cui essa versa attualmente a dimostrare definitivamente che la Cina odierna non è più un Paese emergente.
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Fulvio Gandini
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