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Parliamoci chiaro, l’unico reale punto di discussione attorno all’art. 18 delle Statuto dei lavoratori riguarda la disciplina dei licenziamenti per motivi economici.
Non c’entra nulla la discriminazione, per il semplice motivo che le norme che la vietano in tutte le forme possibili sui luoghi di lavoro, licenziamento incluso, sono da tempo parte della legislazione comunitaria (direttiva 2000/78/Ec) obbligatoriamente recepita nel nostro ordinamento (Dlgs. 9 luglio 2003, n. 216). Licenziamenti emanati per ragioni di sesso, orientamento sessuale, razza, religione, età e convincimenti personali sono quindi nulli, anche indipendentemente dallo Statuto, e valgono per tutti i lavoratori, compresi quelli che lo Statuto non protegge.
Si tenga presente che i licenziamenti su base economica (cosiddetto giustificato motivo oggettivo), vale a dire per esempio quando una ristrutturazione aziendale rende superfluo un posto di lavoro senza che il lavoratore possa essere ricollocato altrove all’interno dell’azienda, erano possibili già prima delle modifiche all’articolo 18 dello Statuto introdotte dalla legge Fornero. In caso di ricorso da parte del lavoratore è l’azienda ad avere l’onere della prova: a fronte dell’insussistenza parziale o totale delle motivazioni addotte, questa è la novità introdotta dalla legge, è il giudice a decidere se ordinare, come era in precedenza, il reintegro del lavoratore o, invece, stabilire un indennizzo economico per quest’ultimo. E’ importante ricordare questo particolare, perché praticamente tutti quelli che ora gridano alla “svendita dei diritti” che avverrebbe con l’intervento del governo, votando la legge Fornero in Parlamento, avevano già accettato il principio che il licenziamento senza giustificato motivo potesse essere compensato con un risarcimento. Oltretutto tale legge non definisce alcun criterio in base al quale il giudice “può” obbligare il reintegro, lasciando quindi la decisione esclusivamente al suo personale convincimento.
La proposta di legge del governo vuole introdurre nel nostro ordinamento, limitatamente ai nuovi assunti, il concetto di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, secondo il quale all’aumentare dell’anzianità lavorativa il costo per l’azienda del licenziamento senza giusta causa cresce. La risoluzione del rapporto di lavoro durante i primi tre anni di impiego può invece avvenire senza alcun indennizzo, fatto salvo l’obbligo per il datore di lavoro di restituire gli incentivi ricevuti per l’assunzione a tempo indeterminato, ma solo dietro congruo preavviso al lavoratore. I parametri che definiscono l’indennizzo dovranno essere stabiliti dai decreti delegati che il governo deve emanare dopo l’approvazione della legge. E’ evidente che la loro quantificazione influisce in modo significativo sull’effettivo potere deterrente della legge.
Per stabilire se questa normativa costituisca un passo avanti o meno è opportuno, oltre al piano astratto dei diritti, fare riferimento alla situazione reale del Paese. Secondo l’Istat (dati 2010) in Italia “il 95% delle imprese ha meno di 10 addetti e impiega il 47% dell’occupazione totale”, se si considera che l’articolo 18 vale per le imprese con più di 15 dipendenti si comprende come già oggi più della metà dei lavoratori non ne sia tutelata; vale a dire che, in termini pratici, possono essere licenziati in qualsiasi momento. Non godono inoltre di alcuna tutela gli oltre 3 milioni di lavoratori precari, in gran parte giovani. Detto in altri termini, a fronte di circa 22 milioni di occupati, l’articolo 18 ne tutela, con tutti i limiti visti sopra, assai meno di 10.
Inoltre, il provvedimento del governo va inserito nel contesto più generale della riforma del mercato del lavoro e del welfare, che ha l’obiettivo di introdurre in Italia per chi perde il lavoro, come ormai quasi ovunque nel mondo, strumenti attivi di sostegno, sia economici che finalizzati alla ricerca di una nuova occupazione. Questi strumenti, di carattere universale, cioè disponibili per tutti coloro in cerca di occupazione, andrebbero a sostituire le diverse forme di cassa integrazione straordinaria e in deroga, che sono invece legate ai singoli posti di lavoro, non coprono i lavoratori delle imprese più piccole e vengono decisi caso per caso con modalità a volte assai poco trasparenti. I meccanismi attuali hanno inoltre il grave limite di vincolare il destino occupazionale dei lavoratori minacciati da licenziamento alla sopravvivenza dell’azienda, innescando molto spesso lunghi e costosi quanto inutili tentativi di “salvare” realtà produttive strutturalmente destinate alla chiusura, che non di rado vanno ad arricchire speculatori senza scrupoli.

Sono tutte questioni, queste, di cui in Italia si discute in termini spesso molto accesi da qualche decennio, senza che vi sia stata la capacità di introdurre riforme sostanziali, ideate sulla base di un ripensamento dei meccanismi di tutela e del welfare che fosse più rispondente alla realtà attuale: il poco che è stato fatto è il risultato di risposte emergenziali, come la citata legge Fornero, affrettate e senza alcuna pretesa di organicità, perché concentrate su obiettivi di brevissimo periodo.

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Raffaele Mosca



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