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Ferrara film corto festival

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11 Novembre 2016

L’America di Bruce

Tempo di lettura: 2 minuti


Dopo quella che probabilmente verrà ricordata come l’elezione americana con i candidati peggiori di tutti i tempi, sembra naturale proporre uno dei brani icona di una delle più grandi rockstar statunitensi di sempre: Bruce Springsteen.

Sono nato in una città di morti
Il primo calcio che ho preso è stato appena ho toccato terra
Così finisci come un cane bastonato troppo a lungo
E passi metà della tua vita cercando un rifugio

Uscita nel 1984 divenne, grazie alle suo stile melodico e ballabile, immediatamente una delle icone dell’americanità e fu il primo successo di massa di Springsteen. Tuttora se si deve pensare ad un inno rock americano, la prima canzone che viene in mente è Born in The Usa.
Peccato che la musica racconti una storia ed il testo ne narri una completamente diversa:

Una volta mi sono messo in un piccolo guaio dalle mie parti
E così mi hanno messo un fucile in mano
E spedito in Vietnam
[…]
Avevo un amico a Khe Sahn
Combatteva i Viet Cong
Loro sono ancora là, lui è morto

Sin da principio facente parte di quel gruppo di artisti pop-rock in grado di fare delle loro canzoni inni politici contro la guerra, Springsteen partì da quelle sonorità scarne Country-Blues che tanto furono care al tardo John Lennon ed al classico Bob Dylan: in quello stile erano incise le canzoni del precedente album “Nebraska”, le cui tematiche erano le stesse di “Born in The USA”, ma per quest’ultimo il Boss capì che per parlare alle nuove generazioni ci sarebbe stato bisogno di qualcosa di ben diverso da affiancare al testo: la chitarra divenne elettrica ed l’armonica fu sostituita dalla tastiera mentre il ritmo della batteria scandiva il battito dei cuori di migliaia di giovani, infiammando l’animo anche dell’allora candidato Presidente Reagan il quale non si accorse che quella che stava ascoltando era una canzone di protesta contro la guerra in Vietnam, arrivando ad elogiare Bruce Springsteen in un comizio come esempio di fede nel sogno americano.

Il Boss rifiutò gli elogi di Reagan spiegando in pubblico le sue posizioni e volle che la sua musica non venisse usata per la campagna elettorale repubblicana.
I suoi testi, spesso politici e contro la guerra, gli sono valsi nel tempo numerosi premi, primo fra tutti il Kennedy Center Honours nel 2006, premio attribuito dal governo statunitense agli artisti che si sono distinti nella diffusione della cultura americana. Il Presidente Obama, alla premiazione, riferendosi a lui usò queste parole: “I am the President, but he’s the Boss”.
In tempi più recenti, Springsteen ha iniziato a riproporre Born In The USA dal vivo così come l’aveva scritta, arrangiata con chitarra acustica e voce, forse proprio con la volontà di dare un maggiore risalto al testo ed è per questo che anch’io voglio proporla con quello che per i più è un arrangiamento inedito.
Buon Ascolto.

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Fulvio Gandini

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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