C’è stata una lunga e sciagurata stagione politica nella quale al grido di “privatizzazione” si è smantellato lo stato sociale e dissipato il patrimonio pubblico. Obiettivo dichiarato: abbattere gli sprechi, rendere più efficienti i servizi. Risultato lo Stato è più povero, i servizi sono in larga parte insoddisfacenti, come o peggio di prima. La ragione non è difficile da comprendere, si basa sulla logica delle cose. Il privato per sua natura mira legittimamente al profitto. E per guadagnare ha due strade: giocare sui prezzi o sui costi. Il pubblico non persegue il lucro. Pertanto, per fare un esempio a caso, il servizio mensa delle scuola può essere gestito dai Comuni a rendimento zero. Ma se subentra un privato deve guadagnarci, quindi o aumenta le tariffe o riduce la qualità del servizio per risparmiare e ritagliarsi così il proprio margine, speculando sulla materia prima impiegata o riducendo gli stipendi dei lavoratori.
L’idea di migliorare privatizzando appare dunque un paradosso, proprio perché il privato non può permettersi una partita a pareggio. Su cosa basavano dunque i fautori della privatizzazione una pretesa così apparentemente insensata? Sulla convinzione che gli sprechi e le inefficienze della pubblica amministrazione fossero talmente enormi da generare un danno superiore all’entità del giusto guadagno del privato. In altri termini il privato, “razionalizzando” e riducendo i costi, avrebbe potuto mantenere la medesima qualità (del servizio o del prodotto) ritagliandosi pure il suo margine di profitto. L’esperienza ha dimostrato il contrario. I servizi privatizzati in generale costano di più oppure valgono meno: se sulla bilancia aumenta la qualità, per mantenere l’equilibrio deve aumentare anche il prezzo; viceversa se si riduce il costo della prestazione si deve ridurre anche l’onere produttivo e dunque il suo valore.
I cittadini non ne hanno tratto alcun vantaggio come era facile prevedere. In compenso enormi flussi di denaro sono transitati dalla casse pubbliche a quelle di imprese private. Spesso, guarda caso, proprio le imprese degli amici dei fautori della privatizzazione.
Il problema andava affrontato diversamente, intervenendo sui meccanismi di gestione del settore e delle aziende pubbliche, improntandoli a criteri di managerialità, progressivamente riducendo gli sprechi fino ad azzerarli. In questo modo si sarebbe mantenuto intatto il controllo pubblico su servizi essenziali preservandone il profilo di qualità a tutela dei cittadini. E avendo libertà di decidere profili tariffari improntati a logiche “politiche” nel senso nobile del termine (cioè a criteri attenti alle necessità dell’utenza e alla redditività dei cittadini), anziché essere schiavi di valutazioni meramente economiciste.
Il sindaco Zangheri, per esempio, nella Bologna degli anni Settanta poteva permettersi di non fare pagare il bus nelle fasce orarie in cui i mezzi erano prevalentemente utilizzati da operai e da studenti. Poteva sostenere quella scelta – e generare quindi consapevolmente una perdita di gestione sul servizio di trasporto pubblico – perché poi recuperava il deficit grazie agli utili di altre aziende municipalizzate (le farmacie, i trasporti e i servizi funebri…), attraverso un meccanismo di compensazione, giustificato da una visione di sistema di impronta non biecamente aziendalista ma, appunto, orientata all’equità e alla ricerca del bene comune della collettività.
La resa incondizionata alle logiche del mercato, che si è affermata da oltre un ventennio, ha invece concorso pesantemente all’eclissi della politica concepita come servizio volto alla soddisfazione dei bisogni dei cittadini nel rispetto degli equilibri della comunità della quale ogni singolo individuo è parte costitutiva.
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Sergio Gessi
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