LA VISITA
Berluti, la fabbrica del lusso che tatua i coccodrilli
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A farti capire che è roba serissima ed esclusiva – se per caso avevi dei dubbi – ci riescono subito. Ancor prima di varcare il cancello d’ingresso nello stabilimento di calzature fatte a mano Berluti ti vengono incontro gli uomini della security. Gentili (abbastanza) ma implacabili, ti chiedono di riportare subito in auto la tua macchina fotografica. Infelice, esegui e torni, ma devi capire che non c’è da prenderla sottogamba neanche adesso. Prima che tu ti possa avvicinare al banco con le hostess che presumibilmente ti potranno accogliere, l’uomo della security ti si piazza di nuovo davanti domandando di aprire la borsa e mostrargli tutto il contenuto. Solo a questo punto ti lascia avvicinare al tavolo dove segnano nome e cognome, chiedono un documento di identità (si sa mai che davi il nominativo di chissà chi) ed ecco il cartoncino con l’orario di ingresso per la visita. “Prego, potete accomodarvi”. Sollievo: non ci saranno foto da portare a casa, ma almeno l’ingresso sembra conquistato.
In ballo c’è una delle Journées Particulières, le “giornate particolari” in cui vengono aperte le porte di laboratori e luoghi di fabbricazione dei prodotti del lusso che più lusso non si può. La Manifattura Berluti fa infatti parte del gruppo Lvmh (sigla che sta per Louis Vuitton, Moët, Hennessy), ovvero del colosso che detiene i 70 marchi più esclusivi del vestire, del bere, del profumarsi e dell’ingioiellarsi.
Ti guardi intorno e ti rammarichi di non potere fotografare almeno quelle piante di lavanda che si riflettono sulle pareti a specchio incorniciate dalle listarelle in legno della Manifattura Berluti in quel di Gaibanella, frazione di Ferrara sperduta nel mezzo della campagna, tra campi di frumento, siepi e orizzonte piatto della pianura emiliana. Ma è già buono avercela fatta. Non che ci sia la fila. Ma sono le 9 di domenica mattina e, quando alcuni giorni fa hai scoperto che lo stabilimento lussuoso e inaccessibile poteva essere visitato, era già troppo tardi. Bisognava iscriversi online almeno due settimane prima che le giornate di visita cominciassero, che è anche un bel po’ di tempo prima che la maggior parte dei comuni mortali ne venissero a conoscenza. A questo punto, però, la segretezza si rivela una fortuna: almeno non ti hanno respinto o ficcato in fondo a una fila di aspiranti visitatori in pena.
Bene, eccoci qui. Nessun altro si presenta, si può partire. “Non disperdetevi e rimanete compatti”, si raccomandano con noi due visitatori. E, ancorché disarmati di macchina fotografica, ci avvertono che le telecamere ci terranno costantemente d’occhio. Un avvertimento per disincentivare che qualcuno faccia il furbo, magari fingendo di guardare lo smartphone per portarsi a casa un brandello di immagine. A tener desto il senso di rispetto ci sono i soliti uomini in completo nero della security che fanno la ronda nella grande sala d’ingresso, chiamata “Agorà”. E’ l’area centrale dello stabilimento, quella da cui si entra nelle varie zone di ideazione, sviluppo e produzione delle scarpe vendute solo in 50 negozi mono-marca distribuiti con parsimonia in tutto il mondo. Per l’Italia l’unico punto vendita è a Milano, poi ci sono i soliti Londra, Parigi, Cannes, New York, Miami, ma anche la Cina con ben 7 punti vendita, il Giappone con 5, Hong Kong, Giacarta, Singapore, il Qatar, Taiwan e ovviamente gli Emirati arabi.
Un uomo e una donna, i nostri cordiali e nero-vestiti accompagnatori, che spiegano come sia esclusiva anche l’architettura in cui è racchiuso lo stabilimento. “La forma – dice lui – replica quella di una enorme scatola da scarpe”. In effetti è un parallelepipedo molto sobrio, avvolto da listarelle in legno di cedro rosso non trattato, forse perché possa prendere sempre più l’aspetto del cartone da scatola. All’interno il legno usato è invece quello pallido del faggio, che – prosegue a spiegare il cicerone – riprende la materia delle forme di piede che riempiono ampi scaffali. Tutt’intorno ci sono infatti questi moncherini, a ricordare precedenti e illustri clienti, le cui estremità giacciono qui levigate e marchiate con nomi come Trieste, Yasuoka, Vukovic. Alzi gli occhi e il soffitto in vetro trasparente è appoggiato su travi in legno che si incrociano. Un’ulteriore metafora – ti assicurano – che vuole rappresentare i lacci intrecciati delle scarpe.
Vabbe’. Da qui si aprono le prime porte scorrevoli e si entra nel laboratorio di sviluppo. Ci lavorano otto persone, incaricate appunto di sviluppare i prototipi. Su un’asta penzolano due forme di coccodrillo spiaccicato e sbiancato. Su un altro sostegno è appesa una larga pelle scuoiata. “Sono i due tipi di pellame con cui vengono fatte le scarpe – dice la guida – che possono essere modellate in cuoio Venezia o in prezioso alligatore”. Un operaio al banco sta sagomando con una taglierina la forma di una tomaia sopra alla pelle che era di un minaccioso coccodrillo, mentre una bella ragazza ritaglia la sagoma dalla pezza appartenuta forse a una mucca. Una grande pelle beige è completamente coperta dalla calligrafia di una pergamena antica, settecentesca. Il manoscritto scelto per la sua bellezza da Olga Berluti viene riprodotto al laser sul cuoio ed è usato per rendere ancora più particolari mocassini, borse o portafogli prodotti qui.
Delle signore nella stessa stanza si occupano di orlatura delle sagome riducendo lo spessore dei bordi, accoppiando le parti della scarpa e cucendole insieme a mano. Un dipendente armato di punteruolo e due aghi cuce insieme la coppia di sagome che forma la tomaia e vediamo come crea la cosiddetta vaschetta, quella rigatura in rilievo tipica della parte superiore del mocassino. Fuori da qui, si entra nella stanza dove le tomaie ancora piatte prendono la forma tridimensionale di un piede, facendole aderire a quei famosi moncherini, che adesso non corrispondono più alle estremità personali dei vari clienti, ma ai diversi modelli che la maison mette in commercio. C’è il modello Alessandro, che prende il nome dal fondatore, partito da Senigallia alla volta di Parigi nel 1895. Ci sono lo stivaletto elasticizzato Sans Gêne e la scarpa Oxford con la pettorina stringata, introdotti negli anni Venti dal figlio del fondatore, Torello Berluti. C’è il mocassino Andy, scarpa appuntita e squadrata che l’ultima discendente della famiglia – Olga Berluti, ancora attiva – si inventa negli anni Sessanta conquistandosi un cliente come Andy Warhol, a cui il modello deve appunto l’ispirazione e il nome.
Ultima sala di lavorazione è quella riservata ai dettagli finali: colore, patinatura e decorazione. Abili mani alle estremità di avambracci tatuati e a molti polsi avvolti nei cinturini di orologi stra-costosi pennellano borse e scarpe come fossero tele, danno colori a cera e poi li tolgono per creare quell’effetto slavato e vissuto caratteristico del marchio. Un dipendente tatua un serpente sopra ai bordi di una scarpa stringata; una sua collega marchia con tatuaggi di tigri una valigetta in cuoio e una tracolla di valore inimmaginabile per chi le vedrà in giro senza esibizione di marchi squillanti.
Il tour è terminato. Si può comperare qualcosina? No, vendita riservata a quel ristretto numero di boutique distribuite nei selezionati punti strategici del globo terrestre. Come Tokyo e Dubai. A Ferrara si produce, ma niente spaccio. Solo i dipendenti, un paio di volte all’anno, hanno la possibilità di un acquisto. Così a Gaibanella e dintorni emiliani si potrà vedere qualche borsa appesa al braccio, magari tatuato e dotato di Rolex, di artigiani d’élite che fanno tatuaggi ai coccodrilli.
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Giorgia Mazzotti
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