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Nel 1954 nella Germania dell’Est, alcuni archivisti ritrovano casualmente in un bunker appartenuto al regime nazista un filmato muto di circa 60 minuti, senza sceneggiatura, intitolato “Il ghetto”: era un documentario girato dai nazisti nel ghetto di Varsavia nel 1942 per 30 giorni consecutivi, esattamente dal 2 maggio al 2 giugno, tre mesi prima della rivolta.
E’ la storia ripresa dal film proiettato lunedì sera al cinema Boldini (grazie alla collaborazione fra Meis, Memorial della Shoah di Parigi, Pitigliani Kolno’a Festival di Roma e Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara) nell’ambito della giornata di studio sul Ghetto di Varsavia. Titolo dell’opera “A film unfinished”, autrice l’israeliana Yael Hersonski.

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Varsavia durante l’occupazione nazista

Sotto gli occhi dello spettatore scorrono immagini di ebrei benestanti che sembrano totalmente indifferenti alla sorte della maggioranza della popolazione del ghetto, che vive in condizioni di estrema sofferenza: ebrei ben vestiti entrano in una macelleria, ignorando i bambini che chiedono l’elemosina oppure non prestano attenzione ai cadaveri abbandonati sul marciapiede.
Il film appare da subito una risorsa straordinaria per ricercatori e studiosi della Shoah, proprio perché si presenta come un documento originale, una fonte
 storica, inoltre è uno dei rarissimi filmati dei ghetti girati dai nazisti. Le pellicole vengono consegnate allo Yad Vashem di Gerusalemme creato l’anno precedente, ma non verranno mai mostrate interamente al pubblico. Nei documentari sulla Shoah si selezionano solo le scene che mostrano la grande sofferenza dei prigionieri del ghetto, mentre le scene sugli interni borghesi vengono tralasciate perché, in breve, non si sa come spiegarle. Solo alla fine degli anni Novanta, quando in Ohio due studiosi che stanno cercando materiale filmico sulle Olimpiadi di Berlino ritrovano un’altra bobina con ulteriori 30 minuti, finalmente si comprende la vera natura del documentario. Qui, infatti, si vede il lavoro dei cineasti nazisti per cercare l’inquadratura più efficace, quella più funzionale ai loro scopi propagandistici. Alcune scene sono state girate più volte, con gli ebrei costretti a recitare il ruolo di attori.

Nel 2006 Yael, studente di cinematografia e nipote di una sopravvissuta emigrata in Israele, alla ricerca della propria storia famigliare negli archivi dello Yad Vashem si imbatte in queste bobine e decide di rimontarle fedelmente, rendendo però ancora più evidenti i diversi piani di realtà e mistificazione che si intrecciano in questo documentario che è anche fiction. Per farlo ha chiesto a cinque sopravvissuti del ghetto di commentare la proiezione e ha inserito brani dai diari di Adam Cerniakov, il capo dello Judenrat del ghetto di Varsavia, della testimonianza di uno dei cameramen, Willy Wist, e dai rapporti redatti minuziosamente ogni settimana da Heinz Auerswald, il commissario nazista che sovrintendeva all’organizzazione del ghetto.

Lavori come questo sono di fondamentale importanza per aiutarci a capire quanto sia difficile utilizzare le immagini come fonti, in particolare nel caso della Shoah: siamo di fronte a immagini autentiche dal punto di vista storico, ma costruite e manipolate a fini di propaganda. A questo proposito Barbie Zelizer nel suo “Remembering to forget. Holocaust memory through the camera’s eye”, afferma che non sappiamo ancora abbastanza sul modo in cui le immagini aiutano a narrare gli eventi collettivi e su quale delle due, le immagini o le parole, riesca ad avere il sopravvento in caso di confronto fra ciò che le parole ci dicono e ciò che le immagini ci mostrano. Ancora di meno sappiamo sul funzionamento delle immagini come veicoli della memoria collettiva: le immagini aiutano a stabilizzare la natura mutevole della memoria collettiva nel cinema, nella tv e nella fotografia, però quando le si usa per dare forma al passato collettivo le difficoltà sorgono dal fatto che esse non rendono evidente come costruiscono ciò che ci fanno vedere e quindi ricordare.
È proprio questo processo di costruzione e stratificazione nel tempo che il lavoro di Yael ci aiuta a comprendere. In altre parole: non basta vedere, bisogna guardare dietro e intorno all’obiettivo, interpretare, sempre nella consapevolezza che l’inquadratura ci offre solo una particolare prospettiva della realtà.

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Federica Pezzoli



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