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Andrea Mantovani, 27 anni, una laurea in agronomia in tasca e un sogno nel cassetto, aprire un’azienda agricola a Comacchio, la sua terra d’origine. Ma le possibilità di farlo, per sua stessa ammissione, sono ridotte a un lumicino: troppi costi e sostegno quasi inesistente ai progetti dei giovani. E il dottorato di ricerca oscilla tra l’improbabile e l’improponibile. “Non solo è difficile ottenerlo, ma non si concilia neppure con le esigenze e la possibilità di costruirsi un lavoro. Alla fine del dottorato, sei troppo vecchio per il mercato – spiega – Siamo in Italia, la ricerca non ha la giusta considerazione, del resto lo si vede dall’arretratezza della nostra agricoltura, povera di innovazione al contrario di quanto succede in altri paesi, come ad esempio la Francia. Non è un problema legato alla tecnica, bensì alla nostra politica agricola”.

Niente di nuovo sotto il sole, i giovani come Andrea non possono evitare di accarezzare l’idea di trasformarsi in migranti laureati. Al momento pare la sola alternativa al vuoto proposto dal nostro Paese, dove l’Istat ha rilevato tra i giovani fino ai 25 anni un tasso di disoccupazione pari al 44,2 per cento. E’ una realtà inconfutabile, tuttavia la passione e l’amore per un mestiere specializzato non si sfalda di fronte alle difficoltà. E per Andrea non è stato diverso. Parte della sua scelta di studi è maturata in Legambiente Circolo Delta Po, frequentato fin dalle scuole elementari nella consapevolezza dell’importanza di frenare l’inquinamento. “Sarà per questo che la tesi finale del quinquennio riguarda la qualità delle piogge e i cambiamenti climatici prodotti dall’uomo”, racconta.

Quattrocento campioni raccolti nell’azienda agricola sperimentale dell’Università di Bologna Alma Mater, analizzati nell’arco di un anno grazie alla collaborazione con il laboratorio di Chimica dell’Università di Bologna, hanno scattato una fotografia di quanto succede nelle campagne vicino alla città, dove agricoltura e industria convivono fianco a fianco. “L’azienda si trova a ridosso di Bologna, in zona Castenaso e dintorni dove insistono alcune piccole realtà industriali, l’autostrada e un termovalorizzatore che brucia rifiuti – spiega – La tenuta è praticamente assediata e risulta ricca di nitrati e solfati. Lo si è stabilito dopo differenti approfondimenti, perché la lavorazione agricola rendeva i campioni raccolti quasi neutri, sembrava non ci fosse nulla di particolarmente anomalo, invece è stato rilevato un inquinamento superiore a quanto ci si aspettava”.

Relativi a polveri sottili, nebbie, piogge e depositi nel terreno, i dati sono stati comparati con quelli del centro cittadino, assai più sano dal punto di vista della qualità dell’aria. “I provvedimenti presi, che vanno dalla revisione degli impianti di riscaldamento alla limitazione del traffico, sembrano aver dato risultati positivi – continua – E’ invece evidente quanto ci sia da fare sul fronte industriale, il sistema è troppo vecchio per rispondere alle eco esigenze attuali. Le imprese dovrebbero essere messe in condizioni di sposare innovazioni tali da limitare i danni all’ambiente e alla salute delle persone”. I danni alla vegetazione, frutta e verdura inclusi, sono in parte la conseguenza di un immobilismo che danneggia indirettamente l’uomo quando mangia e respira il peggio del progresso. Eppure si sa. La diagnosi di malattia figlia delle piogge acide è conclamata, del tutto nebulosa la cura, un interrogativo stampato sullo sfondo di mille ritardi, primo tra i quali il rispetto del Protocollo di Kyoto sul quale, per dirla con Andrea, siamo molto indietro.
Il rimedio dovrebbe arrivare da politiche illuminate, ma il buio è dappertutto, siamo ancora all’anno zero stretti tra silenzio politico, arretratezza e interessi di categoria.

Data la situazione è normale chiedersi: cosa succede ai dati raccolti dagli universitari? Li si tiene in considerazione o sono solo una pratica fine a se stessa? “A livello accademico hanno un loro peso specifico – prosegue – Ma non è chiaro se vengano utilizzati da Arpa (Arpa è l´Agenzia regionale per la prevenzione e l´ambiente dell´Emilia-Romagna, ndr), sarebbe una cosa auspicabile, tanto più che comporterebbero un esborso di denaro inferiore rispetto alle analisi”. Nel Paese dei “doppioni” – dove Andrea troverebbe utile estendere lo studio alle città emiliano romagnole per mettere a punto soluzioni ambientali – tutto è possibile. Del resto ricerca e innovazione sono la cenerentola italiana: perché mai affannarsi nel tentativo di prendersi e dare futuro? Molto meglio adagiarsi su una comoda poltrona. E’ questione di essere fedeli alla tradizione.

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Monica Forti



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