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“È importante che tu mantenga la capacità di esperire, che ci siano cose che ti stupiscano, che ti possano scuotere. È importante che non ti colga la terribile malattia dell’indifferenza”. Nel libro di Ryszard Kapuściński “Il mondo in un taccuino”, così traboccante di sagge meditazioni, di osservazioni precise e di autocritiche annotazioni di diario, ho trovato questo imperativo di vita, che per i giornalisti dovrebbe addirittura essere qualcosa come il primo comandamento del loro mestiere.

Se si vuole presentare la fotografa e scrittrice ‘nomade’ Monika Bulaj, non può mancare il nome di questo grande reporter internazionale polacco deceduto due anni fa. Lei stessa lo cita sovente e, se si scorrono le sue immagini, si avverte in continuazione quanto lei sia stata segnata dalla visione del mondo e dall’ethos professionale del suo connazionale polacco. Ma Kapuściński non è sicuramente l’unico maestro o l’unico modello di Monika Bulaj. Altri nomi devono essere citati. Tra i fotografi, il brasiliano Sebastiano Salgado, l’italiano Luigi Ghirri e specialmente la spagnola Cristina Garcia Rodero, ma forse anche registi come Andrej Tarkovskij e Theo Angelopoulos.
Modelli per il suo stile di scrittura sono tra gli altri, lo scrittore svizzero Nicolas Bouvier con le sue leggendarie annotazioni su un viaggio in Afghanistan e Iran (“L’esperienza del mondo”), Zbigniew Herbert, uno dei più grandi scrittori di viaggio del XX secolo, e Paolo Rumiz del quotidiano italiano La Repubblica, insieme con il quale Monika Bulaj ha intrapreso anche alcuni grandi viaggi attraverso l’Europa e fino a Gerusalemme. Due libri sono qui da segnalare: “Gerusalemme perduta” e il libro sull’Italia di Rumiz, mai abbastanza lodato, “La leggenda dei monti naviganti”, ai quali Monika Bulaj ha collaborato come fotografa. Ed è un caso che leggendo i suoi libri e osservando le sue immagini mi venga sempre in mente anche il nome di Joseph Roth, il grande ebreo in cammino lungo i confini di questo “angolo d’Europa maltrattato e disdegnato”, come egli scrive nelle sue annotazioni di un viaggio attraverso la Galizia.
Kapuściński però gioca forse un ruolo del tutto particolare, semplicemente perché egli, per la prima volta durante gli anni del comunismo, con i suoi straordinari reportage dall’Africa e dal Medio Oriente, ha aperto a Monika Bulaj, come a molti altri polacchi, una finestra sul mondo.
Anche lui aveva questa indomabile curiosità verso il mondo e verso gli uomini sconosciuti e verso le loro religioni, i riti, le feste e le danze. Effettivamente contro “la terribile malattia dell’indifferenza” da lui deplorata, Monika Bulaj appare essere altrettanto invidiabilmente immune come contro la caccia allo scoop, all’effetto, allo scandalo, che è così distruttiva nella nostra cultura del percepire. Da Kapuściński ella ha preso forse anche quell’umiltà discreta e il rispetto per l’altro, senza i quali non si potrebbe mai conquistare la fiducia degli uomini di cui si scrive o ai quali, come nel suo caso, si vorrebbe talvolta arrivare molto vicino con la macchina fotografica. E’ molto importante per comprendere il suo lavoro, come una volta lei stessa ha dichiarato in una conversazione, che tanto in qualità di fotografo quanto di ‘travel writer’ si gioisca del proprio lavoro e dell’incontro con lo straniero e con l’altro. Di nuovo anche qui emerge la vicinanza a Ryszard Kapuściński, che in uno dei suoi ultimi discorsi ha definito l’incontro con l’altro come una “delle più grandi sfide del XXI secolo”.

Monika Bulaj è nata a Varsavia, andava a scuola quando ancora c’era il comunismo, ma ha concluso a Varsavia i suoi studi universitari in storia, antropologia e filosofia quando già il muro di Berlino era caduto. “Avevo alle mie spalle la grande cultura polacca”, ha detto una volta in un colloquio, “ma intorno a me c’era anche il grande vuoto del presente comunista”.

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Un pastore nomade Sheva

Il fatto che fotografie con motivi provenienti dal mondo ebraico e anche dalla cultura dei Rom e dei Sinti, completamente spinti al margine dell’Europa, giochino un ruolo così importante nel lavoro di Monika Bulaj, lo si deve anche alla sua origine polacca o, per esprimersi in maniera un po’ più generale, alla sua provenienza dall’Europa orientale. Da bambina, e poi più tardi negli anni della formazione scolastica e universitaria, ha conosciuto il forte antisemitismo polacco, quello comunista così come quello di alcune parti della Chiesa cattolica. La sua particolare curiosità per una cultura che i nazisti volevano estirpare e che negli anni comunisti della Polonia è stata rimossa, spesso anche apertamente combattuta, ha forti radici biografiche, da lei apertamente rivelate in un suo racconto sulla casa della nonna. E oggi è il razzismo contro i Rom, che va diffondendosi in quasi tutti i Paesi dell’Europa orientale, ma anche occidentale, che l’ha motivata a svolgere le sue ricerche fotografiche negli accampamenti Rom della Slovenia, della Slovacchia o in Italia.

Dal 1993 vive in Italia, prima a Bergamo, ora a Trieste. I suoi primi viaggi fotografici, sempre connessi con forti interessi antropologici, risalgono alla metà degli anni Ottanta. Per il suo progetto “Genti di Dio” è stata in viaggio vent’anni e se si osservano le sue foto, si intuisce a quali disagi, ma anche a quali gioie, queste escursioni in villaggi e comunità, spesso situati ben lontano delle principali vie di comunicazione, siano legate. Nel testo d’introduzione al libro Monika Bulaj, facendo una sintesi dei suoi molti viaggi, scrive: “A piedi, in bicicletta, su slitte, trattori, barconi, ho imparato a indagare i limiti dei mondi di fede, a rallegrarmi quando arrivo tra persone nuove e, contemporaneamente, a essere impaziente di parlare con i vecchi prima che scompaiano, insieme ai loro ricordi”.
E’ così, si deve essere entrambe le cose, paziente e impaziente, se ogni volta nuovamente ci si mette in cammino, come fa Monika Bulaj, verso i confini dell’Europa o verso i luoghi dimenticati degli altri continenti, alla ricerca delle “antiche religioni che stanno per sfaldarsi”, come scrisse Benjamin, e degli uomini che in esse cercano ancora un sostegno, e forse anche lo trovano. Pazienza e impazienza, un soffermarsi meditativo e talvolta anche un ritmo rapidissimo mi sembrano essere caratteri tipici dei suoi lavori. Alcuni scatti sono ad esempio focalizzati in modo molto nitido su persone anziane, sui cui volti si possono leggere innumerevoli storie provenienti da una vita lunga, faticosa, vissuta da qualche parte ai confini dimenticati dell’Europa. Se il fotografare, come ha scritto lo scrittore inglese John Berger, è un altro modo di raccontare, allora qui siamo circondati non solo da immagini ma da innumerevoli racconti.

Nel mio primo incontro con Monika Bulaj, lei portò una lista di Paesi nei quali aveva fotografato negli ultimi anni: Bielorussia, Albania, Ucraina, Polonia, Slovacchia, Romania, Bulgaria, Serbia, Macedonia, Turchia, Grecia, Siria, Etiopia, Israele, Italia, Azerbaigian, Libia, Marocco e Iran. Un panorama di Paesi che in un primo momento mi ha lasciato, come mitteleuropeo conservator-stazionario, semplicemente senza parole. E poi mi mostrò, per ciascuno dei Paesi nominati, una quantità enorme di fotografie, la cui mole è impressionante tanto quanto la qualità, la scelta dei motivi o, se si vuole, il messaggio. Ma non è importante far notare qui la quantità del lavoro di Monika Bulaj.
Molto più significativo e decisivo per la comprensione delle immagini è mettere in risalto l’irrinunciabile credo che guida il suo nomadismo fotografico. Una volta in una conversazione ha descritto così la sua comprensione del lavoro da fotografa: “A me piacciono le situazioni nuove. A tutti posso sempre consigliare il massimo dell’attenzione, il massimo rispetto, la massima umiltà e gioia. In questo modo la fotografia può diventare anche un’esperienza spirituale. Essere una brava fotografa non dipende dall’attrezzatura tecnica che uno si trascina dietro nelle proprie ricerche. Ben più importante è lo sguardo, una grande pazienza ma poi anche un agire estremamente veloce”.

L’enumerazione di Paesi e regioni che negli anni passati Monika Bulaj ha visitato e in cui ha scattato le sue foto, mostra già quanto poco stanziale sia, benché già da alcuni anni viva in Italia. Monika è un po’ polacca, un po’ italiana, europea? Forse di più, è una ‘nomade’. “I Polacchi”, ha scritto una volta Zbiegnew Herbert, sono fondamentalmente “un popolo veramente dinamico e proprio dalla loro storia esageratamente incitati al nomadismo”. In questo senso, se allora proprio si vuole, si può forse dare a Monika Bulaj l’etichetta di una “polacca nomade”, ma soprattutto una nomade che attraversa confini non solo geografici, con macchina fotografica e taccuino.

Traduzione dal tedesco di Elena Alessiato

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Carl Wilhelm Macke

È nato nel 1950 a Cloppenburg in Bassa Sassonia nel nord-ovest della Germania. Oggi vive a Monaco di Baviera e il piu possibile anche a Ferrara. Lavora come scrittore e giornalista. E’ Segretario generale della rete globale “Giornalisti aiutano Giornalisti (www.journalistenhelfen.org) in zone di guerra e di crisi, e curatore dell’antologia “Bologna e l’Emilia Romagna”, Berlino, 2009. Amante della pianura.


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