LA STORIA
Giulio Di Meo, il fotografo
che mette in primo piano gli ultimi
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Fotografa le ombre, Giulio di Meo, i riflessi, i margini del mondo che si nasconde dietro l’angolo. Suoi soggetti sono la gente che non fa notizia, quelli che sono piccoli, i cani senza pedigree, i contadini senza terra, le mani della gente che lavora, il sonno di chi si abbandona e spera, il silenzio, la compostezza degli affetti, la golosità istintiva di una bambina che si affaccia al banco di un negozio di tortellini. Ovunque si trovi, Di Meo riesce a cogliere particolari marginali e inediti, un pezzetto di vita e un paesaggio non scontati, mai ovvi. La sua è una visione che va sotto la superficie, in fondo agli sguardi, dietro a un abbraccio. E non importa che si trovi in un villaggio di operai del ferro nel nordest del Brasile, in un accampamento saharawi del deserto africano, tra le vetrine di lusso nel centro di Bologna o nella periferia industriale di Ferrara. L’obiettivo della sua macchina si insinua tra le pieghe di una tenda, dietro la rete metallica di un campetto sterrato, tra le schegge di cemento di un cantiere. Sta lì tranquillo, magari a chinino, sdraiato per terra o anche in cima a un muretto; e scatta, racconta, fa vedere quegli attimi che tante volte ci passano dietro, di fianco, e che subito non saremmo riusciti a vedere né, probabilmente, avremmo colto.
Nato – come racconta lui – in un “paese piccolissimo, rurale, in provincia di Caserta”, Giulio Di Meo è affascinato da chi vive in contatto con la terra, dagli ultimi, dai particolari minimi. Un professionista del reportage che cattura i riflessi dentro a quei piccoli specchi che si tengono in borsetta o sui banchi dei mercati, che guarda il mondo molto spesso dal basso, ad altezza dei bambini, del cane di casa, delle erbacce. Oppure punta l’obiettivo dietro il vetro di una finestra o da quello di una vetrina, nello spazio incastrato tra il banco e il negozio. Le sue immagini riescono a mettere insieme le persone nell’inquadratura di un braccio infantile avvinghiato alla gamba di un adulto con le infradito in una favela brasiliana; un ragazzino che fa la conta, in strada, di fianco al muro con tutte le ombre dei coetanei nascosti; lo sguardo dell’uomo che tiene in grembo lo specchio mentre il barbiere gli rade i capelli.
A fare da introduzione alle sue foto – per l’appuntamento organizzato dal FotoClub giovedì scorso nella Sala della musica del Comune di Ferrara – ci sono frasi emblematiche, che danno il senso di quello che vedi, ma anche un po’ l’indicazione di un percorso. “Nella vita – riporta la citazione di Sandro Pertini – a volte è necessario saper lottare non solo senza paura, ma anche senza speranza”. Poi c’è Tom Benetollo, presidente per tanti anni dell’Arci e attivista del pacifismo, al fianco delle minoranze e dei diritti sul lavoro, che esorta a non “lasciarci intimidire dall’ordine di grandezza della sfida che abbiamo di fronte”. Oppure Antonio Gramsci, con la sua dichiarazione di “Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. (…) Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”.
E indifferente non si può certo più essere, dopo questo incontro. Con la sua pila di libri e quella carrellata di volti biondi, scuri, grinzosi, freschi, lentigginosi di tutte le diverse popolazioni del Brasile, pubblicata e venduta per sostenere la scuola del movimento dei “Sem terra” che vuole ridare dignità e lavoro a chi resta fuori dalle grandi organizzazioni multinazionali. Oppure il volume sulla quotidianità degli operai dell’industria mineraria, raccontati con il progetto Pig Iron. Ma anche qui vicino, a Ferrara, con la gente di Pontelagoscuro per il workshop di fotografia sociale fatto nel 2010 e quello intorno a viale Krasnodar fatto alla fine del 2011. Bello e, magari, a presto: a un altro appuntamento, ad altri riflessi, altre emozioni.
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Giorgia Mazzotti
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