LA STORIA
Andrea Poltronieri, note e risa in punta di sax
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“Il giullare era quello che veniva pagato dal re perché lo facesse ridere e anche piangere. Non era facile trovare una persona di questo tipo, è una figura affascinante.” Andrea Poltronieri racconta “Note appuntate” (Edizioni La Carmelina), incalzato da Stefano Bottoni, direttore artistico del Ferrara Buskers Festival, e presentato da Federico Felloni e Vincenzo Iannuzzo, per il ciclo “Autori a corte” alla libreria Feltrinelli.
“Note appuntate” si presenta come un block notes libero che spazia tra pensieri personali tra vita e carriera, scritti di getto; la sezione “Dicono di me” che include ricordi e dediche di personaggi famosi con cui ha lavorato, da Paolo Cevoli a Cristina D’Avena fino a Duilio Pizzocchi.
E le sue parodie di canzoni, da “La bici della Gina” (“Amici come prima”) a “Bepi” (“Happy”), brano che il 26 febbraio sarà interpretata in versione lirica dalla soprano Benedetta Kim in Sala Estense, in occasione del primo Festival della Canzone Ferrarese con il gruppo Made in Fe e musiche dei 60 lire.
Tra una battuta e un silenzio, Bottoni e Poltronieri ricordano la prima scintilla scoccata tra di loro: “Era il 1988, c’era di mezzo Haji Akbar e vedevo la faccia di Poltronieri sfrecciare sugli autobus. Perché allora non poterci sfrecciare insieme, su un autobus come ai Buskers?”. Tra musica e comicità, alla continua ricerca di un teschio che è memento mori ma anche il ricordo ormai emaciato ma ancora solido di una risata prepotente. Non è una persona seria, chi non sa ridere.
Il giullare è quello che ti diverte, ma anche quello che ti riporta a quei giorni di liceo fuori provincia in cui sentivi cantare strofe demenziali su musiche note in un dialetto che non era il tuo, senza sapere che si chiamassero “centoni”. Su un tale di nome Gino, bottegaio che lavorava al Famila, alle prese con asparagi e agguerrite vecchiette alla ricerca di ortaggi freschi, tra una nota e l’altra di “Rivers of Babylon”. O a quella volta che hai ascoltato il centone che parodiava “Back for Good” dei Take That di ritorno dall’impossibile esame di tedesco superato per una manciata di voti. Il giullare, lo spiritello ex machina che canti sovrapponendo la tua voce stentorea alla sua, che esce sicura dall’autoradio: è Poltrosax, e te ne accorgi quando lo vedi.
Andrea Poltronieri è singolare. É la Nives, arzilla ottuagenaria treccine rosse spritz nato su due piedi in una serata tra le nebbie della Bassa Padana per colmare il silenzio di un guasto tecnico. É il sassofonista emozionato che stringe la mano a Lucio Dalla il 4 marzo, prima di suonare in Piazza Maggiore, cercandone poi ossessivamente il profumo che conserva intonso e intoccabile nelle mani, e il bambino che riceve in regalo dal papà la sua prima tastiera, una Bontempi, la notte di Natale del 1973. É il bacio in fronte di Lucio Mongardi, il capitano della squadra più ambita, in una domenica da bambino sugli spalti. É New York con il produttore Davide Romani, il girovagare per Washington Square, suonare in metro occupando il posto di un altro musicista che ti rampogna per avergli occupato il suo, di posto, e scusarsi con un sorriso e uscire da lì sentendo di avere già fatto centro, abbozzare qualche nota in re minore, al sax, unico bianco tra musicisti neri nel “Village”.
É plurale, Andrea Poltronieri. Sono le corde della chitarra che gli regala una persona la cui presenza gli riempie la vita, e sono i 56 passi che lo separano da una camera d’ospedale che sta per salutare per sempre questa persona, ma piena ancora della sua presenza. Sono gli studi all’Accademia di Belle Arti con Concetto Pozzati e i concerti da musicomico, tra dissacrante e melomania.
I concerti con gli Stadio e quello per l’Emilia al Dall’Ara di Bologna. Gli impossibili da ritrovare qui sulla Terra, perché sono tutti raccolti al Genius Bar, locale stile Roxy bar in cui ogni grande è perso dietro ai fatti suoi e ancora reclama il legittimo posto che ha preso nel mondo.
Sono Emma e Alice e anche Satin – non la protagonista del Moulin Rouge di cui condivide l’origine parigina bensì l’adorato sax che gli procura il nome d’arte Sax Machine, donne nell’anima.
Sono le note appuntate, quelle scritte in punta di penna per non dare fastidio, scritte di getto per rovesciare l’anima su una pagina bianca, scritte per condividere un ricordo o una risata o una malinconia con chi ti legge, fino a fare uscire i suoi, di ricordi.
Tra un manifesto e lo specchio, tra un re che ha bisogno del suo giullare per trovarsi di fronte alla sua nudità, ed essere in grado di riderne e piangerne.
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Giorgia Pizzirani
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