Le stragi di figli da parte di madri lasciano sgomenti tanto urtano il senso comune. Descrivono una tragedia inscritta in un passato secolare: “Tieni lontano il più possibile i figli, non lasciarli avvicinare alla madre. L’ho già vista mentre li guardava con occhio feroce, come se avesse in mente qualcosa” (Euripide, Medea, vv. 89-92).
L’amore materno non è mai solo amore. Ogni madre è attraversata dall’amore per il figlio, ma anche dal rifiuto del figlio. Talvolta il rifiuto ha il sopravvento sull’amore e allora può essere una delle cause di infanticidio. Talvolta, invece, una madre può uccidere il proprio bambino come atto d’amore malato, per sottrarre il bambino ad un mondo ritenuto cattivo e spietato. Spesso la depressione post partum trascurata può portare ad esiti tragici.
Una caratteristica del sentimento materno è l’ambivalenza: la donna ha il potere della vita e della morte, nella sua possibilità di generare e di abortire. Ogni figlio vive e si nutre del sacrificio della madre: sacrificio del suo tempo, del suo corpo, del suo spazio, del suo sonno, delle sue relazioni, del suo lavoro, della sua carriera e dei suoi affetti.
Oggi la famiglia contemporanea vive un isolamento particolare. Chiuso nelle pareti domestiche ogni problema si ingigantisce, perché non c’è altro punto di vista, manca un termine di confronto che possa relativizzare il problema o che consenta di diluirlo nella comunicazione, di attutirlo nel confronto che può provenire dagli altri.
Il desiderio materno è per sua natura un desiderio cannibalico. La madre tende a fagocitare ciò che ha generato, a riprendere il proprio frutto. Ad impedire ciò interviene la funzione paterna che ha lo scopo di frapporsi tra madre e bambino in modo di impedire la fagocitazione del bambino stesso.
L’identificazione della donna alla maternità la legittima ad entrare in modo dirompente nella vita del bambino su cui crede di poter esercitare il suo potere in nome dell’amore materno. La madre dovrà imparare ad allontanare il bambino, mentre il padre dovrà imparare ad acquisirlo.
Una madre è prima di tutto una donna, che non deve perdere di vista il legame d’amore iniziale col proprio uomo. È il desiderio per un uomo che potrà proteggerla dalla minaccia di una spinta cannibalesca nei confronti del figlio.
Una madre sufficientemente buona dovrebbe mantenere i propri interessi al di là del bambino, considerare il bambino come separato da sé e non come prolungamento di sé, dare al bambino un posto particolare, sostenendone i desideri. Non dire sempre Sì: è il NO che crea il legame.
Dovrebbe mettere in funzione il nome del padre. Continuare ad essere una donna, una moglie/compagna, ritagliare uno spazio per la coppia separato da quello genitoriale. Non sapere tutto sul figlio, non raccontare tutto al figlio, creare uno spazio di ascolto e di parola che non si trasformi in interrogatorio, non essere l’amica della propria figlia.
La madre è quell’abbraccio forte che contiene il bambino appena nato, ma è anche quella stessa madre che durante la fanciullezza trasforma l’abbraccio in una stretta di mano che accompagna il proprio figlio nel mondo ed è la stessa madre che ad un certo punto fa di quella stretta di mano una forza per spingere il proprio figlio verso gli altri e verso la vita.
Tutto ciò è difficile. Come disse Oliviero Toscani con una felice intuizione : “E’ più facile far uscire un bambino dalla mamma che la mamma dal bambino!”.
Chiara Baratelli è psicoanalista e psicoterapeuta, specializzata nella cura dei disturbi alimentari e in sessuologia clinica. Si occupa di problematiche legate all’adolescenza, dei disturbi dell’identità di genere, del rapporto genitori-figli e di difficoltà relazionali.
baratellichiara@gmail.com
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Chiara Baratelli
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