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Laika è la cagnolina che i sovietici hanno spedito in orbita nel novembre del 1957 e che per quelle poche ore “è stato l’essere vivente più vicino a Dio”; laica è la misericordia, la compassione, delle parabole che Ascanio Celestini racconta al pubblico del Teatro Comunale Claudio Abbado fino a domenica 13 marzo. In questo gioco di parole si nasconde la poesia di “Laika”, il nuovo spettacolo dell’autore romano, un altro gradito ritorno sul palco estense dopo quello di Marco Paolini. Curiosa coincidenza: entrambi ci hanno portato a teatro credendo di ascoltare storie di cani. Invece abbiamo ascoltato storie di uomini, ci hanno parlato dell’umanità.
Quella di Ascanio Celestini è un’umanità perduta, almeno agli occhi dei più. E non a caso a narrarcela è un povero Cristo cieco – o che finge di esser cieco – davanti a una bottiglia di Sambuca scadente. Una periferia umana e geografica, o meglio umana perché geografica, o meglio… decidete voi. Un mondo di emarginati, di sbandati, anime strane, buone ma non candide, le cui vicende si intrecciano fra case occupate, monolocali da 35 metri quadrati, il parcheggio di un supermercato, dove le loro vite inciampano le une nelle altre.
“In principio c’è Dio o in alternativa il Big Bang”, almeno secondo Stephen Hawking, secondo cui Dio è “una favoletta” e, infatti, Dio lo punisce “togliendogli il saluto”, nel senso che non può più dire “Buongiorno” e “Buonasera”. “Dio è fatto così, nessuno è perfetto!”, dice il ‘santo bevitore’ di Celestini. “In principio c’è Dio”, ma al centro c’è l’uomo, fatto a sua immagine e somiglianza, anche quando è una vecchia che non crede, una donna con “la testa impicciata” il cui figlio non si capisce se è vivo o morto, un facchino che carica e scarica pacchi da un furgoncino giallo e va avanti giorno dopo giorno solo perché nella sua mente pensa solamente “il mio turno finirà”, un barbone negro, che tutti evitano, o peggio di cui nessuno si cura, perché nel suo bicchiere non c’è la Sambuca, ma gli spiccioli dell’elemosina. Non è sempre stato un barbone, anche lui prima era un facchino; per lui e un collega, entrambi licenziati dopo un incidente sul lavoro, ora “i facchini negri africani” fanno sciopero e le guardie li menano, ma il picchetto resiste: “con una mano fermano i crumiri, con l’altra sostengono la volta celeste”. E Pietro, con la voce bambina di Alba Rohrwacher e il corpo e la fisarmonica di Gianluca Casadei, dice al povero Cristo: “non ci sono giornalisti”, se uno di questi negri africani morisse, la gente saprebbe che è morto “di freddo”.
Personaggi perduti, o meglio dimenticati, emarginati che vivono esiliati in una società che non vuole, non sa più ascoltarli. Proprio loro diventano i protagonisti di un prodigio eccezionale, di un miracolo laico che sfida le nostre coscienze: “una vecchia, una donna con la testa impicciata e di un cieco, scesi in strada nel cuore della notte per difendere un barbone negro” dalle guardie che caricano il picchetto. Un evento tanto straordinario eppure di una semplicità quasi sconfortante perché ci mette di fronte alla possibilità di un gesto d’amore: dunque ne saremmo ancora capaci, ci chiediamo mentre anche in teatro è sceso il buio di quella notte.
Il finale di “Laika” sembra invocare una sorta di nuovo umanesimo, la fine dell’indifferenza, un embrione di rivolta. Ma Celestini non dà scampo al pubblico: non gli permette cedere all’autoassoluzione, alla tentazione di pensare che basti assistere alle sue parabole contemporanee per collocarci d’ufficio dalla “parte giusta”. La redenzione, se c’è, è solo letteraria, non consola, perché l’assenza di un Dio, di un senso, di una giustizia, di un’etica continua ad aleggiare sulle vicende dei personaggi e del pubblico.

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Federica Pezzoli



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