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Che il welfare al quale eravamo abituati sia in drammatica crisi è un fatto riconosciuto. Decisamente meno chiaro è lo scenario che abbiamo davanti: che ruolo avranno alla fine gli attori istituzionali che sono stati o dovevano essere i pilastri del welfare? Che conseguenze ci saranno per tutte quelle professioni orientate alla cura, all’educazione e all’inclusione sociale che di queste istituzioni erano e sono la struttura portante? Quale ruolo ci sarà per il terzo settore, per il non profit nelle sue diverse articolazioni? In che modo si svilupperà la sussidiarietà e quali relazioni prenderanno forma tra i vecchi attori istituzionali e quelli nuovi che si affacciano sulla scena?

Per ora si deve prendere atto della fine della tenuta di un modello concettuale semplificato, caratterizzato dalle imprese che producono ricchezza, dallo Stato che si occupa delle questioni sociali attraverso i suoi servizi socio-sanitari, educativi e le sue politiche economiche, e, infine, delle organizzazioni politiche, partiti, sindacati, movimenti di pressione che segnalano i temi e gli spazi dove intervenire.

Da questa disgregazione sono emersi e stanno emergendo in Italia tentativi di soluzione, modelli, ipotesi di lavoro, pratiche e processi che variano da regione e regione, da territorio a territorio: alcuni falliscono, altri restano circoscritti al caso di successo, pochi si affermano, molti stentano ad affermarsi. Tutti però mettono radici e crescono all’interno di un sentire collettivo fin troppo spesso caratterizzato da un sentimento collettivo molto diffuso di timore e paura che non di rado sfocia nel rancore e nell’intolleranza; in un ambiente dove si contrappongono e si giustappongono argomenti ed opinioni che variamente oscillano tra l’ottimismo cieco nel progresso e nelle virtù del mercato, la fede nella tecnologia e l’aspettativa di leggi adeguate, l’impegno e il disinteresse sociale e l’indifferenza.

In mezzo a questo ribollimento sociale si colgono ancora, ora forti ora flebili, le voci delle due grandi narrazioni collettive del novecento italiano, quella del solidarismo cattolico e quello del mutualismo della sinistra, il modello cooperativo bianco e rosso con le imprese sociali, le centrali e il più vasto mondo del volontariato e dell’associazionismo. Sotto a tutto questo, per chi sa guardare, si rivela infine il tessuto delle reti di solidarietà familiare, una prospera economia informale che sfugge alla contabilità ufficiale, la rete ancora sperimentale delle sempre più numerose comunità intenzionali. Questi i veri elementi portanti di quella galassia sociale e culturale composta dai piccoli comuni (a rischio di sopravvivenza) e dalle piccole città che tra mille contraddizioni rappresentano ancora una peculiarità del territorio italiano. Un intero sistema relazionale che troppo frettolosamente si riteneva fosse stato superato e reso obsoleto dalla modernità industriale imperante.

In questo terreno composito cresce buona parte dell’associazionismo, si afferma quella ideologia del prendersi cura (I care, come recitava lo slogan ampiamente frainteso di una passata campagna elettorale) che alimenta i valori di molte persone che hanno scelto – più per passione che per calcolo – o che si sono trovate loro malgrado a far parte di quel vasto spazio imprenditoriale e lavorativo che si denomina solitamente con l’etichetta non profit. Almeno in parte queste persone condividono un comune impegno, una focalizzazione alla cura di altre persone, una centratura sui bisogni che è propria di molte professioni come quella degli educatori, dei medici, degli insegnati, degli assistenti sociali, dei terapeuti.

Di fronte a questo mondo – seppure lungo un confine sfumato, una terra di nessuno in cui si scorgono manipoli isolati in movimento – sta la comunità dei produttori, la comunità operosa, il profit, il mondo degli affari, quello che viene celebrato ogni giorno nelle pagine economiche dei media. Un mondo altrettanto composito e diversificato, fatto da pochi grandi gruppi, forse una decina, 4.000 medie imprese e milioni di piccole imprese e micro imprese; un tessuto produttivo che malgrado le spinte alla delocalizzazione e alla dematerializzazione del capitalismo finanziario, malgrado le chiusure e le dismissioni, proprio per la sua frammentazione mantiene ancora un forte riferimento al territorio. In Italia, terra dei comuni e dei distretti industriali, del capitalismo familiare, delle imprese di famiglia e del diffuso artigianato, malgrado la crisi, malgrado lo scempio ambientale causato anche dagli insediamenti produttivi è proprio alla scala del territorio che gli attori sociali possono giocare nuove sfide assumendosi nuove responsabilità.

Che relazioni si possono costruire su un territorio tra questi attori per rispondere allo stato di crisi del welfare, per sviluppare inclusione sociale, per costruire pezzi di welfare comunitario? Che ruolo dovrebbero giocare in tal senso le amministrazioni se riuscissero ad interpretare al meglio il loro ruolo di enti regolatori? La peculiarità italiana, la specificità del capitalismo italiano, suggerisce a mio parere di prendere spunto da altre esperienze nazionali, ma obbliga allo stesso tempo a costruire una via innovativa che sappia valorizzare le diversità territoriali. Modelli di capitalismo differenti, affermatisi in culture diverse, che hanno generato welfare diversi e che hanno dato luogo a pratiche molto differenti di non profit. Ed è a questi modelli che molti guardano per affrontare la crisi in Italia:

• si guarda molto, anzi decisamente troppo, al modello liberale anglosassone, finanziario, dove l’impresa conta solo per i suoi rapporti con la borsa, con la finanza. Nel processo di accumulazione (predatoria?) si formano le grandi fondazioni (Bill e Melinda Gates ad esempio o George Soros che dopo aver speculato e guadagnato sulla crisi argentina combatte la fame nel mondo con la sua rete di fondazioni o ancora la famosa e chiacchierata fondazione dei Rockefeller) che consentono di finanziare interventi sociali: il massimo di profitto per le imprese per garantire il massimo di fondazioni (non profit) per la società (soprattutto un grande vantaggio per le imprese che trasferiscono nelle fondazioni quote esentasse e attraverso esse promuovono la propria immagine e le proprie strategie);
• si guarda al modello corporativo del welfare tedesco basato su un imponente volume di risorse fiscali e sulla cogestione ai vertici delle grandi imprese dove è la presenza del sindacato diretta e non conflittuale che esprime il mondo dei lavoro e dei meno ambienti se non proprio dei più deboli (quello che forse aveva cercato di fare senza successo l’IRI in Italia?), un modello che pur garantendo sostegni e sussidi pubblici anche ai disoccupati spinge le persone ad avere un ruolo attivo nella ricerca di soluzioni per i propri problemi;
• si guarda poco a quello corporativo francese con uno stato forte dove il rapporto tra profit e non profit sta in mano a prefetti e prefetture che si occupano anche di sociale oltre che di ordine pubblico;
• si guarda infine all’inarrivabile modello delle socialdemocrazie scandinave, caratterizzato da un welfare pervasivo ed in grado di garantire quasi tutto ai suoi cittadini, al punto di rendere quasi inutile il terzo settore.

Le culture e le tradizioni che hanno generato questi modelli di welfare ai quali si guarda per trovare ispirazione non sono le culture e le tradizioni (il plurale è d’obbligo) dell’Italia delle differenze regionali, dei distretti industriali, delle piccole (e grandi) città, della presenza diffusa della chiesa e del Vaticano, delle contrapposizioni ideologiche perduranti e del divario tra nord e sud. L’Italia dei piatti e dei prodotti tipici, che non ha una propria cucina ma molte cucine che resistono all’omologazione, dei dialetti e dei campanili, di Internet e della Ferrari. Dunque, se il vecchio modello di welfare familiare caratteristico del nostro paese e dell’Europa mediterranea non sta più in piedi è ancora alla cultura e ai territori, a nuove possibilità di collaborazione tra i diversi attori istituzionali, che bisogna guardare per trovare buone soluzioni innovative.

In questa Italia molto operosa che rapporto dunque ci può essere tra profit e non profit? Che rapporto può avere l’imprenditoria morale con i grandi gruppi (in primis le banche)? Che rapporto con le medie imprese che spesso investono in welfare aziendale o di comunità contribuendo a garantire la tenuta della coesione sociale (si pensi agli asili aziendali o ai progetti di conciliazione dei tempi familiari con quelli di lavoro). Che rapporto può avere il non profit con le micro-imprese, con il capitalismo molecolare e diffuso spesso aggregato in quella specificità italiana che sono i distretti industriali? E infine, che ruolo possono e devono giocare le Pubbliche amministrazioni (a livello regionale, provinciale, comunale) in questo scenario?

Le risposte a queste domande possono essere molteplici e, dunque, un ruolo fondamentale tocca alla innovazione sociale, alla capacità di escogitare soluzioni innovative di fronte ai nuovi problemi emergenti, anche trovando nuove forme di collaborazione tra costellazioni produttive (profit) e costellazioni di cura (non profit). Se la via maestra dell’innovazione attende sempre nuove soluzioni alcune appaiono già chiare e percorribili:

• la rendicontazione sociale da parte delle imprese profit che possono così mostrare la loro responsabilità sociale (ed ambientale) a fronte del loro investimento per il non profit;
• la ricerca di finanziamenti alternativi rispetto a quelli pubblici da parte delle agenzie di cura del non profit e di certi settori del settore pubblico, in primis attraverso le fondazioni e la valorizzazione delle donazioni;
• l’inserimento degli attori e delle istituzioni profit nelle procedure di pianificazione e programmazione sociale e territoriale;
• la valutazione costante e condivisa del valore sociale prodotto dal sistema degli attori istituzionali impegnati.

E’ anche nella gestione strategica di questa complessità che quel che resta del pubblico, decimato dai tagli, può valorizzare il suo ruolo ed ottenere nuova legittimazione. Molto del presente va però disegnato e ridisegnato, partendo dal positivo ed inventando nuovi modelli che partano sempre dal riconoscimento reciproco dei diversi attori pubblici e privati, profit e non profit che agiscono sul territorio; tenendo conto che in Italia l’economia informale (non parliamo naturalmente dell’economia nera) e familiare, le reti informali e familiari, sono ancora un fattore rilevante, seppure con grandissime differenze tra città metropolitane (a loro volta diversissime tra di loro) e campagne, tra paesi e cittadine, tra nord e sud. Qualcosa di diverso da quello che viene dipinto dal sistema omologante dei media ma che può rappresentare, e forse in qualche luogo già rappresenta, il tessuto relazionale a partire dal quale pensare nuove soluzioni realmente percorribili.

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Bruno Vigilio Turra

È sociologo laureato a Trento. Per lavoro e per passione è consulente strategico e valutatore di piani, programmi e progetti; è stato partner di imprese di ricerca e consulenza e segretario della Associazione italiana di valutazione. A Bolzano ha avuto la fortuna di sviluppare il primo progetto di miglioramento organizzativo di una Procura della Repubblica in Italia. Attualmente libero professionista è particolarmente interessato alle dinamiche di apprendimento, all’innovazione sociale, alle nuove tecnologie e al loro impatto sulla società. Lavora in tutta Italia e per scelta vive tra Ferrara e le Dolomiti trentine.


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