A giudicare dal pubblico, il ritorno sulla scena ferrarese di Roberto Soffritti è questione che interessa solo i reduci della politica. Alla sala dell’Arengo, che nei giorni scorsi ha ospitato un suo confronto con la stampa in stile “tribuna politica” (organizzato dal Think tank “Pluralismo e dissenso” e moderato da Mario Zamorani), c’erano molti capelli bianchi e pochi o nessun under 50. Il chiaro segnale che l’epopea del Duca Rosso è davvero conclusa in tutti i sensi, non appassiona i giovani ma desta giusto curiosità fra chi ha vissuto quegli anni da protagonista: in platea, infatti, la prevalenza era di ex amministratori e “addetti ai lavori”…
Le luci fioche della sala e il tono da confessionale dell’oratore hanno contribuito a rendere un po’ surreale il clima l’incontro, animato dalle domande di Stefano Lolli (Resto del Carlino), Stefano Scansani (la Nuova Ferrara), Stefano Ravaioli (Telestense), Marco Zavagli (Estense.com) e, per Ferraraitalia, dall’estensore di questa nota. Anche i riflessi sui giornali, che abbiamo atteso per valutare l’accoglienza in città, sono stati misurati e non hanno finora sollecitato alcun commento da parte dei lettori.
Eppure, nel bene e nel male, Soffritti a Ferrara ha segnato un’epoca. I suoi sedici anni da sindaco, interpretati da primattore quale egli era, in tempi caratterizzati da frenesia e rapidità, equivalgono quasi a un regno. Di alcune attuali derive politiche è stato per molti versi uno spregiudicato anticipatore: delle larghe intese, per esempio, che gli oppositori di allora (a rischio di querela) definivano “consociativismo”; ma anche di una “politica del fare” che dribbla la questione morale e si misura solo con i vincoli di legge: un approccio in base al quale le cose sono “lecite o vietate”, mentre “l’inopportuno” – nel Soffritti-pensiero – risulta una categoria con cui si baloccano le inconcludenti anime belle. “Quando c’è qualcosa che non va, si muove la magistratura: il resto sono chiacchiere”, ha affermato tranchant.
Con un artifizio retorico, un’apparente deminutio auctoris impiegata per strappare il consenso, l’ex sindaco considera plausibile (per inesausta volontà di fare) d’aver commesso anche “diecimila errori”, ma a nessuno dà un nome. Mentre con sdegno respinge puntualmente tutte le principali accuse che da anni gravano sul suo capo: la scelta di Cona come ubicazione del nuovo ospedale (“di fatto dettata dalla Regione”); la controversa gestione della vicenda relativa al Palazzo degli Specchi (“frutto di intrecci romani”); le salde relazioni con la Coop Costruttori di Giovanni Donigaglia.
Al riguardo evoca spesso, ma non nomina mai, i suoi strenui oppositori interni di allora, che rispondono principalmente ai nomi di Fiorenzo Baratelli e Paolo Mandini. Nomi che sulle sue labbra non affiorano, se non implicitamente nelle smorfie di fastidio che si tracciano quando tratta quei temi e spiega che tutto è frutto di “malintesi, cose che non si sanno o si finge di ignorare, montate ad arte da chi non capiva o non voleva capire”.
“Io non sono stato il sindaco più bravo di questa città – replica a chi glielo chiede – ma quello che ha fatto più cose”, il che però nella sua testa è una tautologia, alla luce della quale inciampa la falsa modestia.
Rivendica persino, con discreta faccia tosta, le ragioni della sua conversione da moderato del Pci (“mi dicevano che ero un socialdemocratico”) ad alfiere del Pdci, in veste di tesoriere nazionale e deputato: una scelta compiuta non perché repentinamente fulminato dal verbo marxista-leninista sulla via di Roma, ma a causa del fatto (ammette quasi con candore) che tutti gli incarichi politici prefigurati dopo il ’99 sfumavano inevitabilmente (“benché per me si fossero spesi Montanari per la Regione e addirittura Veltroni per le Europee”), complice la malevolenza dei soliti noti che gli strionfavano contro. Così, nel 2006, alle profferte “dell’amico Diliberto”, non ha potuto resistere, non per conversione ideologica ma per evidente brama dello scranno di Montecitorio, una ghiotta opportunità per proseguire la sua pragmatica parabola. E a chi gli chiede conto di quella giravolta verso la sinistra radicale ricorda come “allora appoggiavamo Prodi, dando quindi un sostegno fondamentale al governo del Paese”. Mentre oggi che il piccolo PdCi è fuori dall’orbita governativa e da ogni cabina di regia, il saggio Soffritti è alla ricerca di un nuovo approdo, che non sarà “con quelli dell’Altra Emilia Romagna”.
Guardando indietro il Duca Rosso rivendica con orgoglio la sua innaturale alleanza con la Dc di Nino Cristofori (braccio destro di Giulio ‘Belzebù’ Andreotti), in un certo senso prodromo delle larghe intese attuali. “Accordi indispensabili in una città di agrari – sostiene, riferendosi al suo antico patto – per ottenere il consenso vasto e diffuso necessario per fare ciò che serviva a Ferrara”.
Insomma, il ‘fare per il fare’, senza badare troppo al ‘come’. D’altronde è proprio quello che da anni ci “insegnano” tutti coloro (da Berlusconi a Renzi) che avendo responsabilità di governo spiegano che non si può andare troppo per il sottile, che le cose “vanno fatte e basta”.
Così è per Soffritti e per tanti altri che sono stati o sono al vertice delle istituzioni e dei partiti. Tanti governanti di piccole e grandi città, di Regioni bianche o rosse, di governi nazionali. Loro “fanno” per cambiare il Paese. Invece resta tutto uguale, le stesse inerzie, la stessa mentalità, gli stessi scandali. E non a dispetto dei loro sforzi, ma a causa dei loro metodi: perché proprio l’esasperata “politica del fare” è terreno di pastura per quelli che, non a caso, si chiamano affaristi o faccendieri, abili a infiltrasi nei suoi anfratti e a corromperne la natura. Sono loro, ancora loro, i tragici protagonisti delle cronache politiche e di quelle giudiziarie di Nostra Italia del Miracolo anno domini 2014.
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Sergio Gessi
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