Dopo i fatti di Parigi, si prova una stanchezza insidiosa per tutto ciò che riguarda l’universo delle parole. Una sfiducia nel loro potere di fronte ai fatti che brutalmente le annullano o le convalidano, a seconda di ciò che credi o che pensi di credere. Neppure un rifugio sono più le parole.
Non tanto e non solo quelle che ripetono con sfumature e intenti diversi il “Je suis Charlie” ma quelle che non puoi pronunciare di fronte alle bambine imbottite di tritolo fatte saltare in aria o del ragazzino che uccide impassibile gli ostaggi e trionfalmente si allontana scavalcando i loro corpi. La misura dell’orrore di fronte al quale solo il silenzio sembrava l’unica risposta, nel momento della scoperta dell’inferno dei lager nazisti, sembra qui – se fosse possibile – superata nel momento in cui la sacralità della fanciullezza diventa pretesto infame per esprimere un credo e una convinzione: carne tenera, di vitellini uccisi, per rendere ancora più oscena l’avidità del potere, qualunque esso sia e dovunque esso si trovi.
Amos Oz, nel suo capolavoro “Giuda”, fa pronunciare una terribile verità al vecchio Gershom Wald: “anche se in fondo la diffidenza, la mania di persecuzione e financo l’odio per tutto il genere umano sono delitti molto meno gravi dell’amore per tutto il genere umano: l’amore per il genere umano ha un sapore antico di fiumi di sangue […] chi ama tutta l’umanità, i paladini della redenzione del mondo, che in ogni generazione ci sono piombati addosso per salvarci senza che ci fosse modo di salvarci […].” (p.33)
Ecco, quell’amore per il genere umano che in ogni fede acritica è solo rivolto a quello che si considera il proprio e, dunque, quello che si considera superiore agli altri, produce la sostanziale indifferenza per il singolo, per la persona a cui al massimo, nei casi recenti sopra esemplati, è permesso il martirio: un inconsapevole martirio. I fiumi di sangue che hanno arrossato il mondo appartengono al concetto dell’amore universale verso la nostra specie, sbandierato da chi considera o ha considerato i seguaci di altre religioni una sottospecie, il male, il nemico assoluto.
Saper coniugare la persona a una società, qualunque sia il proprio credo, è dunque la civiltà o perlomeno uno stadio evolutivo nel passaggio dalla preistoria alla storia.
Ma a questo punto bastano le parole? Quelle pronunciate da Voltaire o da Beccaria o da Spinoza? Non più purtroppo.
Le parole sembrano inquinate da una specie di mancanza di credibilità e ancora, se l’ottimismo della volontà mi/ci spinge a credere nelle possibilità del dialogo è ancora possibile dialogare? O prevale il pessimismo della ragione?
Il grande Leopardi c’insegnava che nella social catena è possibile trovare la ginestra nel deserto, Gramsci dal carcere predicava l’assoluta necessità del dialogo. Che fare?
Rinasce potente quel pensiero che Elsa Morante volle ad exergo de “La storia”: “il sonno della ragione genera mostri”.
Ma come potremo combattere i mostri? Con la guerra? Sarebbe un epilogo atroce. Benché ammorbato e contaminato dalla crudeltà, credo che la guerra sia ancora il più definitivo dei mali.
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Gianni Venturi
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