Qualche giorno fa l’autorevole linguista Tullio De Mauro, dalle pagine di Internazionale, ha ripreso i termini di una polemica, forse più un grido d’allarme, che intellettuali di varia formazione e provenienza portano avanti già da molti anni. Il tema è quello del rischio della scomparsa degli studi umanistici dai corsi universitari nel mondo occidentale.
Tullio De Mauro cita un’intervista all’economista David W. Breneman, pubblicata sul New York Times, dove lo studioso denuncia il declino degli studi di liberal arts nelle università statunitensi a favore di studi pratici orientati all’ingegneria e al business. Nel mondo anglosassone, l’espressione liberal arts include i cosiddetti studi umanistici, come la letteratura, le lingue antiche e moderne, le arti in generale, la filosofia e così via, ma anche tutti i saperi, compresi quelli scientifici, come la matematica e la fisica; tutti questi sono considerati, nel loro complesso, “sapere puro”.
Nel 1990, negli Stati Uniti, le università di liberal arts erano 600 (di cui però solo 200, secondo Breneman, ne potevano vantare il nome) mentre secondo gli ultimi dati, risalenti a tre anni fa, si sarebbero ridotte a 130. Un numero sempre maggiore di studenti si iscrive a corsi professionalizzanti, mentre i piccoli college, dove predominavano corsi di liberal arts, stanno progressivamente aggiungendo corsi di economia e marketing. Molte di queste piccole realtà, spesso gestite da privati, stanno scomparendo e il processo pare inarrestabile.
Ma perché gli studenti americani sono sempre meno interessati alle materie umanistiche? In un sistema in cui l’istruzione universitaria costa decine di migliaia di dollari ogni anno, e dove studenti e famiglie spesso si indebitano a vita per pagare gli studi, le liberal arts appaiono sempre di più un lusso poco spendibile in termini di investimento sul futuro professionale. Le professioni legate all’economia, come il commercio e la finanza, o alle nuove tecnologie, hanno più attrattiva e sono considerate più facilmente capitalizzabili. Nel mondo attuale è sempre più difficile trovare lavoro come storico, antropologo o esperto di letteratura o di filosofia, ed è giocoforza che l’interesse per queste discipline sia in diminuzione. Nel presentare la propria offerta formativa, i college di impronta umanistica insistono sul fatto che, al contrario, sia possibile trovare un buon lavoro anche nei campi letterari o nelle scienze sociali. Tuttavia, nell’enfatizzare questo aspetto, e ponendo l’accento sul profitto, perdono di vista l’essenza degli studi umanistici, che è quella di saper creare un pensiero critico, analitico, che accompagna chi lo riceve per tutta la vita, qualsiasi cosa faccia e qualsiasi percorso decida di seguire.
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Francesca Carpanelli
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