LA RICORRENZA
24 maggio, sparare è dovere: il dramma di seicentomila ragazzi mandati al macello
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Da quando sono nato sono stato sollecitato a celebrare il 24 maggio come il giorno del riscatto italiano, che altri popoli, antipatici!, non volevano, “italiani fuori dai piedi” dicevano gli altri popoli, almeno così mi insegnavano famiglia, scuola, libri, retorica, “fuori i musicanti, fuori o sole mio, fuori i poetucoli e pittori di cartoline illustrate” e ci rappresentavano con un mandolino in mano e la bocca piena di spaghetti: insopportabili.
L’avvento del cinema consolidò questa facile rappresentazione, mandolino, spaghetti, mafia. Ma forse non era nemmeno del tutto sbagliato. E allora gli eroismi, l’attaccamento alla bandiera, l’amor patrio di cui è condita la nostra storia? Non erano falsificazioni, i poveri fantaccini, mandati a morire sul Piave, furono veri, grandi eroi: non sapevano perché gli avessero messo in spalla un fucile, non sapevano perché dovessero andare a sparare a gente che parlava quasi la stessa lingua di coloro che andavano “a liberare”, il popolo non capiva quella guerra, seicentomila ragazzi inviati direttamente al camposanto, se mai arrivavano al camposanto, più spesso rimanevano lì a bocca aperta, l’ultimo respiro, rimanevano su un zolla di terra, cuscino e pietra tombale senza nome.
La grande guerra, al di là delle retoriche falsificazioni, fu uno spaventoso genocidio, una fucilazione corale e indiscriminata, un ignobile atto di terrorismo di massa: i nostri alleati ci disprezzavano e ci dileggiavano perché eravamo guidati da un re grande come un bambino di quinta elementare. Scriveva Hemingway in “Addio alle armi”: quando, vicino alle prime linee, passa una grande macchina con dentro nessuno vuol dire che c’è il re! Eravamo i poveracci d’Europa, non sapevamo leggere né scrivere, nei primi anni del secolo al Sud i ragazzi partivano per le Americhe, una valigia di cartone, una foto della mamma o della fidanzata, andavano a costruirsi un futuro fuggendo dalle terre e dagli affetti, andavano a comprarsi un pezzo di pane, quando giunsi a Milano dopo tanti anni dalla prima grande guerra mondiale, dai treni puzzolenti di vino, sudore e fiati fetidi scendevano gli stessi ragazzi di mezzo secolo prima, giacchettine striminzite come quelle che usano adesso, barba lunga e valigia chiusa da spago, andavano alla ricerca di un letto, ma sulle porte milanesi un cartello avvertiva, o minacciava, “non si affitta a meridionali”, quei meridionali che il re aveva usato come carne da macello, che il duce, ampliando i confini della sua fame di gloria, aveva inviato a morire sulle sabbie roventi d’Africa e in mezzo ai ghiacci dell’inverno russo. Fabbriche di morte. La guerra è sempre una fabbrica di cadaveri, rimangono là, poveri giovani, rimangono là impigliati nei reticolati, carne per cornacchie e topi e sulle tombe scrivono “martire ed eroe”. Provate a chiedere alle madri dei martiri ed eroi che pensano della guerra, provate. Tutto il resto è retorica.
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Gian Pietro Testa
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