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di Monica Pavani

Il pianista tedesco Alexander Lonquich, protagonista di un imperdibile appuntamento di Ferrara Musica lunedì scorso, prima di immergersi e immergere il pubblico in un concerto a dir poco alchemico, si palesa sulla pedana su cui il pianoforte attende imponente e con grande semplicità si rivolge direttamente al pubblico, dicendo che gli “hanno chiesto” di spiegare la particolarità del programma che propone per la serata. Fa un parallelo con youtube: avete presente – dice – quando si passano le serate a cercare un brano dopo l’altro che si ha voglia di ascoltare, fino a comporre la propria playlist adatta all’umore di quel momento? Ecco, l’accostamento dei vari autori è avvenuto proprio così, seguendo una logica ‘associativa’, e mettendoli tutti insieme – una grande squadra di grandi compositori – non è stato difficile scoprire che non solo si parlano a vicenda, ma anche rivelano l’uno dell’altro aspetti reconditi che magari erano sfuggiti in altri ascolti. Ecco perché il concerto reca il titolo ‘Affinità elettive‘: una forza magnetica attrae le opere tra di loro svelandone ‘sgabuzzini’ oscuri assolutamente stupefacenti.

Comincia dunque il viaggio di Lonquich nella musica, che parte da Stravinsky e arriva a Janáček, a dispetto di qualunque ordine cronologico o coerenza di genere. Perché si passa per esempio per un Grieg con il suo ‘Suono di campaneì del 1891 che – come ci allerta il pianista – sembra scritto cinquant’anni dopo. E accanto a un delicatissimo pezzo di Bruckner, ‘Erinnerung’, del 1868, si scatena il furore di Rachmaninov con il suo Preludio op. 23, dove le connessioni cerebrali si intrecciano in una danza sfrenata a tratti dilaniante. Ci sono attimi che aprono alla meditazione, altri che invitano ad affacciarsi sulla vita con un sorriso ironico e divertito. E Lonquich si muove da un umore all’altro, scalando pareti e scendendo per discese innevate o seccate dal sole. Tutto parla, come in uno spettacolare scenario naturale al variare delle stagioni. Questo è il tempo della musica, un ciclo continuo da primavera a inverno, senza che venga annotato il computo degli anni o ne resti traccia organica.
Ma è con le Variazioni Diabelli di Beethoven che il senso del titolo ‘Affinità elettive’ diventa ancora più lampante. Dice infatti Goethe nel romanzo omonimo: “In questo lasciare e prendere, fuggire e ricercarsi, sembra davvero di vedere una determinazione superiore: si dà atto a tali esseri di una sorta di volontà e capacità di scelta, e si trova del tutto legittimo un termine tecnico come affinità elettive”. Nel caso del grande Beethoven, gli ‘esseri’ sono da intendere come le infinite varianti dell’animo del compositore, ma anche le cascate di note che afferrano il valzer di Diabelli e lo plasmano in molteplici esplorazioni dove il tema iniziale tende a scomparire – tanto viene ricreato di volta in volta in sempre diverse armonie. Basta leggere la successione delle variazioni (Poco allegro, Grave e maestoso, Adagio ma non troppo, Piacevole…) per avere uno spaccato emotivo assolutamente esaustivo di ogni piega e riverbero dell’esistenza. Si ha l’impressione che Beethoven avrebbe potuto non mettere mai fine a questa serie di opere, e che – se come meritava – gli fosse stata donata davvero l’immortalità, avrebbe ideato sempre nuove formule di bellezza.

Lonquich tiene il pubblico in uno stato di incantamento, con il respiro quasi sospeso, e con l’ultima nota delle Variazioni si scatenano ondate di applausi che lo richiamano più e più volte alla ribalta, ottenendo l’esecuzione di ben tre bis, quasi a rimandare all’infinito il momento del commiato (e dunque la fine della musica).

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Redazione di Periscopio



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