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di Monica Pavani

Un paio di giorni prima di vedere al Teatro Comunale lo spettacolo ‘Last Work’ (andato in scena domenica 25 novembre) di Ohad Naharin, il coreografo israeliano che guida la Batsheva Dance Company dal 1990, mi è capitato di leggere il discorso tenuto dallo scrittore israeliano David Grossman in occasione del Premio per la tolleranza e la comprensione che gli è stato conferito in questi giorni al Museo ebraico di Berlino. In particolare, mi hanno colpita due affermazioni di Grossman: l’impossibilità di distinguere “fra il me politico e il me scrittore, né tra il me scrittore e il me uomo”; e che la tolleranza – per lo scrittore – “nasce dalla disponibilità di sentire e comprendere l’altro dentro di noi, anche quando l’altro ci minaccia perché è diverso, e incomprensibile”.
Ho ritrovato questi due moti – più che pensieri – in ‘Last Work’ di Naharin, del quale avevo già visto, sempre al Comunale, alcuni lavori, fra cui DecaDance. Ricordavo l’energia dirompente dei suoi danzatori, i movimenti quasi esplosivi, e una specie di esaltante poesia che scaturisce dalla liberazione di una forza sopita o forse soffocata. Naharin ha canonizzato questo suo approccio in un vero e proprio metodo, chiamato Gaga, basato sul “piacere fisico dell’attività fisica”, che potenzialmente può essere sperimentato da ogni persona di qualsiasi età, e non solo da chi danza.
Eppure, in questo ‘Last Work’ ho trovato che il coreografo si spinga ancora più oltre nella sua ricerca, esplorando, appunto, quell’altro “dentro di sé” che è mosso da una forza più contemplativa, fatta di gesti anche minimi, movenze flessuose e lente che sembrano provenire dal mondo arcano di felini che si aggirano silenziosi su un pianeta un po’ disabitato, un po’ ignoto, o forse solo in fase di mutamento.

Viene da chiedersi se questo titolo, ‘Last Work’, che allude a una fine, possa riferirsi all’affacciarsi di una nuova esigenza espressiva del coreografo, che non si limita più a scatenare (letteralmente: togliere le catene) ai suoi danzatori, ma li accompagna in un nuovo viaggio che passa anche per i vuoti, le soste, e gli arresti. Gli spettatori sono chiamati ad assistere a una serie di movimenti d’insieme (e spesso a duetti) dal ritmo ipnotico che può ricordare lo sboccio di un fiore, petalo dopo petalo, o il dispiegarsi di una farfalla dal bozzolo. E la mente è partecipe, chiamata com’è a interpretare, ma soprattutto a leggere e a lasciarsi leggere da ciò che accade. I magnifici danzatori diventano sacrificali, non in senso religioso, bensì artistico: fanno dono di sé senza risparmiarsi e per di più con straordinaria grazia. Durante tutto lo spettacolo una danzatrice corre instancabilmente, ma con compostezza, su un tapis roulant. Allude al tempo che passa? Al movimento imperterrito che trascina l’universo nella sua corsa verso il dissolvimento? O solo all’impossibilità di fermare le lancette e di costringere la vita in una singola forma?

Naharin libera le immagini, non le costringe. A fine spettacolo, dopo uno strepitio di proiettili, e grida ferine sparate a tutta gola da un microfono, i danzatori si fermano e vengono legati con lunghi fili di nastro adesivo che forse li unisce o forse li paralizza per sempre; mentre una grande bandiera bianca sventola dietro di loro, decisa e affaticata.

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Redazione di Periscopio



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