Avevo sempre ammirato l’opera di Simone Baschenis con distacco artistico. Ora la sua Danza Macabra, che campeggia sulla parete sud della chiesa cimiteriale di S. Vigilio a Pinzolo, assume un’altra dimensione. Da quando frequento la val Rendena non ho mai mancato l’occasione per tornare a rimirarla. Oggi, che la Morte e il Tempo sono la sola cosa che renda tutti uguali, ce lo ricordano quotidianamente i bollettini con cui contiamo le vittime di questa pandemia. Sembrava appartenere al pennello dei Baschenis, alle narrazioni dei loro affreschi, invece accompagna i nostri giorni, non con le rappresentazioni pittoriche di scheletri e di falci, ma con i dati statistici e la traduzione iconografica che ne fanno i mass media. Baruch Spinoza scriveva nella sua Etica: “Ciò a cui l’uomo libero pensa di meno è la morte, e la sua saggezza si esprime nel meditare non sulla morte, ma sulla vita.”
È evidente che, costretti a ragionare di morte, abbiamo perso in libertà e in saggezza. Per il Censis siamo nell’anno della ‘paura nera‘, meglio sudditi che morti, mentre il sistema paese è una ruota quadrata che non gira. Ciò che prima era tondo ora si è fatto spigoloso, neppure la paura è quella di prima, è così nera da essere panico, da produrre i suoi malefici, come le paure delle fiabe nella nostra infanzia.
Sgomento, terrore, angoscia, la paura ha tanti nomi e tante facce. È un’emozione forte, potenzialmente vitale e sana, ci aiuta nei momenti di pericolo. Quest’anno invece ci ha precipitati nel nero delle tenebre, che sono più buie del buio. Senza vie di uscita, ci paralizza, ci toglie il fiato, blocca e ostacola il nostro naturale sviluppo.
Non è la paura di Antonio Albanese, che per la prima volta vestiva i panni del Ministro della Paura nell’ottobre del 2008, ospite della trasmissione di Fabio Fazio Che tempo che fa. Neppure quella di dieci anni dopo del libro di Antonello Caporale: “Matteo Salvini. Il ministro della paura”.
È la somma di tutto questo e molto di più. È la Monarchia della paura, come titola l’ultimo lavoro di Martha Nussbaum. La paura spesso mescolata a rabbia, colpa e invidia. L’ira e la rabbia incontrollata hanno preso il posto dell’Italia del rancore del Rapporto Censis del 2018. Scrive Martha Nussbaum nell’introduzione al suo libro: “La paura troppo spesso blocca la deliberazione razionale, avvelena la speranza e impedisce la cooperazione costruttiva per un futuro migliore”.
Con la paura l’intera macchina del pensiero va in panne, la negazione prende il sopravvento e la politica stessa si fa politica della negazione, della proibizione, dell’imbrigliamento. Prende i sopravvento il lutto, il dolore di aver perduto la libertà e le possibilità di prima. La paura è sempre quella che abbiamo sperimentato dall’infanzia, la paura di perdere l’oggetto d’amore, per dirla con Freud, dove l’oggetto d’amore non è il grembo materno ma la nostra vita, la nostra vita di sempre. È questa forse la vera infantilizzazione, di cui La Stampa ha scritto, l’infantilizzazione delle nostre esistenze.
In meno di un anno oltre un milione e seicentomila decessi per Covid-19 nel mondo, donne e uomini che se ne sono andati, per ognuno di noi anonimi, salvo per i loro cari.
Poi muore un calciatore, Diego Armando Maradona e il mondo si mobilita per celebrare il ‘niño de oro’. Li Wenliang, morto in corsia d’ospedale, chi lo ricorda più? Nessuno. Il medico cinese ‘eroe’, che a dicembre del 2019 per primo diede l’allarme del Coronavirus e non fu ascoltato. Se gli si fosse dato retta, forse oggi racconteremmo un’altra storia. Invece la regressione infantile prende le forme dell’ondata di popolo che invade le piazze a piangere il mito del panem et circenses dell’industria calcistica mondiale.
Così che le morti non sono tutte uguali. Fisicamente tutti gli uomini devono morire, ma certuni, definiti ‘grandi’, possono sopravvivere nella memoria dei loro successori. Avere una seconda vita, oltretombale, durare finché esisteranno persone dotate di memoria. Il problema è l’ordine di grandezza che l’esorcizzazione della paura non consente di cogliere, tanto da abbandonarsi a riti collettivi che appaiono più tribali che razionali.
Non dico che si debba essere dell’opinione che Platone pone in bocca a Socrate: “l’anima al divino, all’immortale […] è simigliantissima”, per cui “alla natura degli dèi non è lecito giungere a chi non abbia esercitato filosofia […] a nessuno è lecito se non al filosofo”. Ma non scadere neppure nell’indifferenza fino alla dimenticanza di chi veramente merita questo genere di immortalità, non farci sorprendere da un’altra malattia, che rischia da tempo d’essere più radicata del virus: la perdita di umanità.
Sentirsi impotenti, senza controllo sulla propria vita non giustifica d’abbandonarsi a riti catartici collettivi, semmai usati dalla politica e dall’informazione come distrattori, come stanze di compensazione dove scaricare le emozioni, l’ira e la rabbia.
C’è una filastrocca dei tempi della Melevisione dal titolo Filastrocca della paura nera, che potrebbe aiutarci a combattere il rischio di infantilizzazione. Sostanzialmente insegna ai bambini, ed ora agli adulti, che la paura nera è una strega, che fa dire le bugie, che addormenta e impietrisce, rende ciechi e intontisce.
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Giovanni Fioravanti
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