Sulla Darsena del Po di Volano sfreccia un motoscafo, la scia si perde verso gli argini. Seguono due canoe dal ritmo sostenuto. Supero il ponte e sono in via Bologna. È sabato, sono le quattro del pomeriggio. Ho la bici, la macchina fotografica, ma non il taccuino.
È un sole che divide tutto il mondo in due singole parti, quello che ho sulla testa: esistono l’ombra e la luce. Oggi so benissimo dove sono diretto, sono partito in bici consapevole della strada che avrei percorso. Svolto in via Ippodromo. Dopo qualche metro, la strada è chiusa e ha inizio un parco alberato con delle panchine di legno. L’erba è stata tagliata da poco e l’odore si infila nelle narici. Ai lati della strada si ergono dei caseggiati. La costruzione più vistosa è proprio la sede dell’Ippodromo. Dall’esterno il muro di cinta ricorda vagamente un lager nazista, uno di quei campi di concentramento mostrati tante volte in tv. Fermo un’auto. La ragazza alla guida dice che all’interno ci sono i preparativi per una festa, lei è venuta a cucinare per oltre trecento persone.
Giro ancora un po’ lo sguardo, quando all’improvviso riconosco, al fianco sinistro dell’ingresso principale dell’Ippodromo, quello che cercavo quando sono uscito di casa questo pomeriggio: un rovo di spine e rose, una sciarpa della Spal, la lapide e la foto di Aldro. Eccolo! Qui è morto Federico Aldrovandi, all’alba del 25 settembre duemilacinque, dieci anni fa. È morto in seguito a una colluttazione con degli agenti della Polizia di Stato, “un ragazzo ucciso da quattro individui con una divisa addosso”, ha scritto a proposito Lino Aldrovandi, il padre di Federico. Ho in mente questo luogo e rivedo il corpo di Federico tumefatto, sdraiato supino sull’asfalto, con le braccia allargate che disegnano una croce, così come lo ha mostrato Filippo Vendemmiati nel suo bel documentario, “È stato morto un ragazzo”.
Rivedo Federico e vado a cercare le parole scritte dal giudice Caruso nell’introduzione alle motivazioni della sentenza: “Tanti giovani studenti, ben educati, di buona famiglia, incensurati e di regolare condotta, con i problemi esistenziali che caratterizzano i diciottenni di tutte le epoche, possono morire a quell’età. Pochissimi, o forse nessuno, muore nelle circostanze nelle quali muore Federico Aldrovandi: all’alba, in un parco cittadino, dopo uno scontro fisico violento con quattro agenti di polizia, senza alcuna effettiva ragione”.
Quanto può essere profondo il dolore di una padre e di una madre? Quello che più fa male forse è sapere di non poter esserci sempre. Sapere che quando metti al mondo un bambino e lo curi affinché sia pronto alla vita, nonostante tutti i tuoi sforzi, arriverà il giorno in cui sarà solo. Ha fatto in tempo a svelare la verità, Federico. Il suo cuore ha parlato per lui dopo la morte. Ci sono volute le indagini, certo. Ci è voluto il coraggio di Lino e Patrizia. Poi quel fotogramma che ha evidenziato l’ematoma sul cuore. È stato il corpo di Federico a non tacere, a testimoniare che le percosse sono state letali.
Sono passati dieci anni dalla sua morte e posso dire che da allora Ferrara, almeno ai miei occhi, non è stata più la stessa. Questa città sorniona, la sua tranquillità apparente ha fatto da contraltare al dramma. È come se Ferrara e la sua pacatezza avessero acuito il dolore per l’accaduto. La città è lì a stendere il suo velo d’amarezza e dire che non era affatto necessario, che questa è una città di provincia dove non dovrebbe succedere mai nulla del genere. Purtroppo è accaduto. Federico è rimasto solo troppo presto, è accaduto in via Ippodromo, sullo stesso selciato che sto calpestando in questo momento. La sua è una di quelle morti ingiuste che rendono la vita stessa intollerabile e il suo prosieguo un’enorme distesa di recriminazioni. C’è qualcosa di profondamente irrazionale nel nostro modo di intendere la vita. Mi riferisco all’incapacità di riconoscerci nel prossimo. Tutto nasce da questa ignobile malattia, da questa perdita di memoria e coscienza che è il nostro vero peccato originale.
Ecco, Federico è qui a ricordare questa amnesia. A ricordare il dolore di un padre e di una madre che deve essere il nostro, anche se questo non riuscirà a lenire alcuna ferita.
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Sandro Abruzzese
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