LA NOTA
Nel nome della Metafisica il secondo Rinascimento estense da Cosmè Tura a de Chirico
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Nell’approdare alla bellissima mostra su de Chirico e la Metafisica si affollano nel pensiero sensazioni, intuizioni, lavori che negli anni si sono succeduti legati come sono alla mia lunga fedeltà al’opera di de Pisis. Una mostra memorabile non solo per la qualità altissima delle opere scelte e individuate come racconto complesso e di lunga durata ma per i fili sottili e intelligenti che i curatori hanno tessuto riproponendo un’immagine totalmente nuova e del periodo e dei suoi attori. Si esce dalla mostra con la convinzione che il giudizio sul secondo Rinascimento ferrarese – e non è una banalità rifarsi a quella ipotesi che già cominciava a prendere piedi negli anni Sessanta – non sia stato un episodio circoscritto solo alla storia dell’arte italiana ma abbia coinvolto nel nome, in perfetta adesione con le cose, un complesso giudizio sullo sviluppo delle arti visive nell’intero secolo breve che ora con perfetta sincronia viene esposto nelle ahimè troppo anguste sale della mostra che tuttavia non sono state capaci di umiliare la grandezza delle opere esposte e dell’intelligenza che le ha guidate.
Dall’antico e ormai consueto richiamo all’espressionismo stravolto della ‘Renaissance singulière’ su cui poggia la fortuna e la fama di quel periodo storico sotto gli Estensi alla miracolosa ripresa al principio del Novecento di una parabola che trova la sua nascita tra Tura e Cossa e si conclude con l’opera gigantesca e altrettanto lucidamente stralunata di de Chirico e dei suoi amici. Si chiamassero Carrà, Savinio, Morandi tenuti assieme dalla generosa presenza di un de Pisis ancora e unicamente letterato che solo dal 1924 in poi saprà mettere a frutto quella rappresentazione di una realtà sui generis. E si veda la strepitosa sala degli occhi il cui recupero nel tempo s’associa con un quadro fondamentale come ‘L’angelo ebreo’, tra i massimi risultati del periodo ferrarese di de Chirico. L’occhio è un evidente recupero dell’immagine dell’occhio biblico o latamente arcaico “ con valenza protosurrealista.”
E l’occhio domina con la sua misteriosa presenza ne Il saluto dell’amico lontano 1916( foto) dove fa da sfondo al pane ferraese , la coppia, e al biscotto della pasticceria ebraica del Ghetto ferrarese ma ancor più strepitoso quella specie di ‘mise en abyme’ del tema dell’occhio e del recupero del quadro dechirichiano in un’altra composizione che rappresenta quadri nei quadri come lo splendido ‘Natura morta con gli occhi’ di de Pisis del 1924.
Ancora troppo poco si è studiato quella particolarissima categoria di pittori-scrittori che hanno il loro nume tutelare nel Michelangelo colossale alle prese con il Giudizio Universale o della Pietà Rondanini e nell’estrema testimonianza della sua arte complessamente enunciata nell’opera poetica testimoniata anche dal rapporto con Vittoria Colonna. Il celebre inizio del sonetto michelangiolesco non era certo sconosciuto agli artisti nella metafisica Ferrara dove potevano anche vedere l’opera somma del Bastianino nell’abside del Duomo che interpretava nella aura nebbiosa di Ferrara la lezione del Buonarroti.
Non ha l’ottimo artista alcun concetto
c’un marmo solo in sé non circonscriva
col suo superchio, e solo a quello arriva
la man che ubbidisce all’intelletto.
Sono gli stessi artisti che s’arrestano ammirati a leggere le pagine diaristiche di Pontormo e di Cellini di cui probabilmente avevano conoscenza per riprendere a loro volta una nostalgia e tensione verso la scrittura che fatalmente rimane in seconda linea di fronte alla trionfante preminenza del colore, del disegno, della struttura che porta alla costruzione di quella macchina strepitosa dei manichini inquieti sullo sfondo ferrarese che s’ergono minacciosamente complessi nella macchina ad orologeria del ‘Grande metafisico’ o nel minaccioso dio vendicativo del Carrà autore di quel Dio ermafrodito a sua volta collegabile con l’arcaica testa del Gentiluomo briaco dello stesso autore.
Lo splendido saggio di Paolo Baldacci apre l’esaustivo catalogo della mostra con nuove valutazioni e a nuove interpretazioni elaborate dal critico per ben un trentennio. E qui, alla mostra, si può sperimentare con inoppugnabili pezze d’appoggio questo terzo momento della Metafisica dechirichiana che dopo quello iniziato a Milano e a Firenze e proseguito a Parigi con ancora il ricordo di quella Torino legata a Nietsche e ai Savoia si conclude in questa città e la riscopre cercando il surreale sotto la cornice più consueta. Manichini, dolci, guanti, occhi per constatare ciò che dolorosamente è diventato così attuale ora con l’attacco a Parigi: la “pazzia del mondo” provocata dalla guerra. “Se le Muse di Ferrara, cioè le divinità che devono trasmettere al poeta lo spirito inquietante dei luoghi, si rivelano testimonianze di tradizioni e di magie così disparate, e se de Chirico le ha rappresentate in un modo così volutamente assurdo e privo di senso, non è solo per dirci che su tutto aleggia la grande e incontrollabile pazzia del mondo ma anche per celebrare quel nodo fatale che nella Ferrara di Borso d’Este e di Ercole I aveva intrecciato le tradizioni astrologiche e alchemiche del classicismo rinascimentale” ( catalogo della mostra “De Chirico a Ferrara, Metafisica e avanguardie, p.35)
Le Muse inquietanti consegnano dunque all’immaginario europeo l’incertezza di una vita che nella squadratura degli spazi, nella pulizia astratta delle prospettive e degli angoli retti evoca il magma ribollente di una vita che non può ne sa pensare se non ad un eterno presente quando il passato è ormai consunto e il futuro nel momento che lo si evoca diventa per un attimo e solo per quello l’”attimo estatico” dove tutto si consuma e si conclude. Non è un caso che la statua- manichino diventi non solo l’immagine del filosofo poeta ma il segno di quella immutabilità che i silenzi di Ferrara evocano. Il montaliano “male di vivere” che proprio in quegli anni il più grande poeta del Novecento indicava quale volontà di vita: “ Bene non seppi, fuori dal prodigio/ che schiude la divina Indifferenza;/ era la statua nella sonnolenza/del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.”
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Gianni Venturi
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