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LA NOTA
L’arte di ricucire

Articolo pubblicato il 5 Febbraio 2015, Scritto da Simonetta Sandri

Tempo di lettura: 3 minuti


Una vecchia macchina da cucire se ne sta lì immobile, seria, quasi attenta e pensierosa, commossa dal solo ricordo di quella anziana nonna che, fino all’ultimo, le aveva accarezzato le membra stanche. Sembra pensare proprio a quella nonna che un tempo, da giovane, con lei aveva cucito anime spiegazzate e ricamato sogni che volevano rimanere impressi su bianchi vestiti da sposa. Merletti che avevano accompagnato all’altare tante belle ragazze, orli di pantaloni che avevano aiutato i loro sposi a sembrare più ordinati ed eleganti.

ricucire
Pubblicità di una macchina da cucire Vibrante

Dopo la seconda guerra mondiale si cuciva a mano, e lo si è fatto per molto tempo, si preparavano le giornate più importanti con fili, perline e ricami, si sopravviveva alle difficoltà economiche anche andando dalle sartine di fiducia. Che con abilità, pazienza, creatività e fantasia ti rendevano belle e molto più che presentabili, copiavano i modelli dei primi numeri di Vogue (fondato nel ben lontano 1892…) o delle pagine fresche e patinate che arrivavano dalla vicina Francia. Anche mia madre mi ha sempre raccontato di come si cercava la bellezza lontano, di come si pagavano a rate quei vestiti luccicanti per i balli della città, dove la gioventù ferrarese s’incontrava vociante e guardava speranzosa al futuro che si profilava. Mi piace ascoltarla.
Quelle macchine da cucire allora lavoravano a pieno ritmo, un ritmo che ticchettava e batteva veloce sulle note di giorni speranzosi e giovani volonterosi di risollevarsi. Le cuciture scorrevano e scivolavano su velluti, crine e cotoni colorati, i filati intessevano storie nuove. Se anche ci si pungeva un attimo, poco importava, si stava costruendo un pezzo d’Italia, si preparava una bella gioventù a presentarsi al mondo splendente e coraggiosa, con la voglia di sposarsi, di fare figli, di lavorare, di migliorare, di crescere, di vedere il mondo. Con quei bei vestiti cuciti a mano, con quegli allegri manichini che sorridevano dalle vetrine colorate ma semplici si guardava lontano. C’era la speranza. E mentre tutto questo avveniva per le strade e nelle menti di ogni italiano, le sartine cucivano, cucivano, inventavano, disegnavano, tagliavano. Solo con le loro mani screpolate, le loro forbici taglienti, le loro idee lungimiranti. E tutto nasceva, una nuova alba vedeva il giorno.
Oggi rimane solo qualche vecchia macchina da cucire, messa lì come un cimelio, ma per qualcuno è ancora un ricordo non troppo lontano.
Perché anche gli oggetti hanno una storia e un’anima. Perché questi oggetti stanno lì per ricordarci quel che eravamo, quello che siamo stati, un paese che si è risollevato ma che fatica ad andare avanti, ora. Perché ci vorrebbero ancora, forse, tante macchine da cucire e tante sartine, a ricucire un bel pezzo di passato che non c’è più.

Fotografia della macchina da cucire di Anna Pirazzi

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Simonetta Sandri

E’ nata a Ferrara e, dopo gli ultimi anni passati a Mosca, attualmente vive e lavora a Roma. Giornalista pubblicista dal 2016, ha conseguito il Master di Giornalismo presso l’Ecole Supérieure de Journalisme de Paris, frequentato il corso di giornalismo cinematografico della Scuola di Cinema Immagina di Firenze, curato da Giovanni Bogani, e il corso di sceneggiatura cinematografica della Scuola Holden di Torino, curato da Sara Benedetti. Ha collaborato con le riviste “BioEcoGeo”, “Mag O” della Scuola di Scrittura Omero di Roma, “Mosca Oggi” e con i siti eniday.com/eni.com; ha tradotto dal francese, per Curcio Editore, La “Bella e la Bestia”, nella versione originaria di Gabrielle-Suzanne de Villeneuve. Appassionata di cinema e letteratura per l’infanzia, collabora anche con “Meer”. Ha fatto parte della giuria professionale e popolare di vari festival italiani di cortometraggi (Sedicicorto International Film Festival, Ferrara Film Corto Festival, Roma Film Corto Festival). Coltiva la passione per la fotografia, scoperta durante i numerosi viaggi. Da Algeria, Mali, Libia, Belgio, Francia e Russia, dove ha lavorato e vissuto, ha tratto ispirazione, così come oggi da Roma.


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani