La mia cucina ha i mobili di legno marrone, una frigorifero bianco e un divano verde. Due porte: una va in cortile e una in corridoio, una grande finestra con un serramento che è stato riverniciato da mio padre. Marrone anche lui. Il tavolo e la credenza sono antichi, provengono dalla vecchia casa di mia madre. Chissà di chi erano in origine. Mia madre si ricorda di averli sempre visti. Di qualche zia zitella, forse. Il lampadario è bianco e centrale, illumina il tavolo e la gente che intorno a quel tavolo si ritrova a mangiare. Molti sono gli ospiti di casa, spesso arrivano persone che si fermano a pranzo. Mia madre è una brava cuoca ed è anche simpatica. Ha 80 anni. Nel cuore della cucina ci sono i pranzi della mia famiglia a di tutti i suoi ospiti, ad eccezione di quelli di Natale e Pasqua che si fanno sul lungo tavolo del soggiorno, perché siamo in tanti e la ricorrenza è solenne. Il cuore della mia cucina è proprio questo pasteggiare accogliente. Gente che va e viene e si ricorda di noi perché ha pranzato qui.
Le stoviglie della credenza sono vecchie ma in buono stato. I piatti sono bianchi, i bicchieri tutti uguali, le posate d’acciaio appartengono a servizi diversi ma hanno una linea molto simile perché sono stati prodotti nello stesso periodo. Circa 50 anni fa. Le stoviglie sono l’anima della cucina. Un esperimento che faccio sempre quando abbiamo ospiti è cercare di guardare le loro facce attraverso il riflesso deformato del bicchiere o delle bottiglie. Sono visi che prendono una strana forma cilindrica e svelano nella loro stranezza aspetti nascosti delle persone.
Anche da piccola avevo questa passione di guardare le cose alla rovescia. Allargavo le gambe, facevo una flessione in avanti in modo da mettere la testa tra le gambe e osservavo le persone dal basso verso l’alto. Mi piaceva particolarmente farlo con mio nonno. Mio nonno era un ex partigiano, alto due metri che portava il 50 di scarpe. Considerando che era nato nel 1905, erano misure davvero eccezionali. Visto alla rovescia sembrava un trampoliere. I centimetri delle sue gambe si allungavano a dismisura e i piedi diventavano ancora più enormi perché erano vicini alla mia faccia. Su in alto c’era un tronco un po’ tozzo e più su ancora una testa con un grande mento e degli occhi lunghi e stretti, sempre per quella strana visione capovolta che mi piaceva tanto. Le braccia erano lunghissime e penzolavano come due possenti liane quasi fino alle ginocchia. Visto dal basso mio nonno sembrava un buffo gigante buono. Credo che buono e gigante lo fosse davvero. In quanto al buffo, devo essere l’unica persona che lo abbia mai considerato tale. Il gioco del sottosopra è durato per tutta la mia infanzia e mi piace tutt’ora, anche se per decenza e senso del limite non mi metto più capovolta a guardare le persone.
Ora faccio la stessa cosa con i bicchieri della cucina. Guardo Tito che, riflesso nel bicchiere, ha il naso schiacciato e le guance che si dilatano in orizzontale fino a sembrare le ali una grande farfalla, gli occhi piccoli e quella macchia scura sopra la testa che sono i suoi capelli. Nel bicchiere gli brilla il naso, perché la luce si è concentrata per un attimo in un quel punto. Se giro un po’ il bicchiere vedo Tito sempre più deformato. Una guancia è diventata più lunga dell’altra, l’occhio destro è grande e tondo, mentre il sinistro non lo si vede quasi più. Quell’occhio singolo mi ricorda Polifemo, la storia dei ciclopi. Il ciclope è una figura nata nella mitologia greca. La sua caratteristica è proprio quella di avere un solo occhio, posizionato centralmente, sotto la fronte. Una dei primi a narrare la storia dei Ciclopi fu il poeta Esiodo che scriveva del ciclope Bronte il “tonate”, di Steropo il “lampo” e di Arge lo “scintillante”. I tre erano figli di Urano e Gea, divinità primordiali, rispettivamente personificazione di cielo e terra.
Ecco, anch’io ho la possibilità di vedere dei ciclopi, facendo girare il bicchiere, mentre nessuno mi vede, intercettando un punto di intersezione fra il fascio di luce che entra dalla finestra, il bicchiere e la faccia dei miei ospiti. Sembrano tutti dei grandi ciclopi. Sorrido e poi mi accorgo che Tito mi sta guardando. Sono costretta a rigirare il bicchiere. Direzionarlo sulla faccia di Linda. Si vedono solo i suoi capelli lunghi e biondissimi. Una specie di campo di grano pronto per la raccolta. Grano un po’ piegato dal vento, maturo e bellissimo nella sua vastità. Tutto il bicchiere è diventato di quel giallo. Un gioco stupefacente per la sua imprevedibilità. Anche da altre stoviglie si possono trovare riflessi delle persone: dalle pentole se sono ben lucidate, dalle bottiglie di acqua e vino, dalle zuppiere di maiolica. Se ben posizionate le suppellettili della cucina hanno un grande potere rivelatore. Sono la cartina di tornasole che ti permette di vedere le persone in maniera diversa. E’ molto divertente, un gioco che possono fare tutti, comunista. Se fatto con discrezione è strategico per passare il tempo e assolutamente innocuo. Dai bicchieri della cucina si possono vedere le persone in maniera nuova: facce più tonde o più allungate, nasi schiacciato o aguzzi, occhi tondi o al contrario lunghissimi, capelli che sembrano onde del mare, bisce, campi di grano, abissi degli oceani, biscotti. La cosa davvero sorprendente di tutto ciò è che insieme a queste visioni deformate sembra di intravedere dei tratti del carattere nascosti, degli aspetti nuovi di persone conosciute da sempre che non sono solo fisici ma anche psicologici e cognitivi. Quello che noi vediamo nel bicchiere è in parte una nostra proiezione, una nuova consapevolezza che nasce guardando le solite facce in modo diverso, con una prospettiva diversa. Queste nuove visioni sono una piccola verità svelata. Una nuova rappresentazione che insieme ad una nuova luce ci permette di staccarci da immagini consuete dal nostro vivere e di scoprire ciò che davvero pensiamo degli altri. Un nuovo granello di saggezza da raccogliere. L’immagine nel bicchiere è una percezione alterata, una modalità visionaria e paradossale, ma utile. Mio nonno era una persona buona, ne sono sicura perché lo era sia che io lo guardassi dall’alto verso il basso, oppure alla rovescia.
La mia cucina è un terreno di esplorazione straordinaria, i pasti consumati in quella stanza sono rivelatori del vero carattere delle persone, di ciò che dicono e di ciò che pensano. Di ciò che sono stati e di quello che diventeranno. Le idee, la gioia e la verità sono spesso una questione di prospettiva. La prospettiva definisce e alimenta il nostro modo di vedere e vivere. Nella mia cucina c’è il terreno per una nuova consapevolezza. Giro il bicchiere e guardo fuori dalla finestra. Un po’ di blu e il cortile interno sempre bellissimo.
Ma questa è un’altra storia e se ne parlerà.
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Costanza Del Re
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