Il giovane Arturo, Palermo, la prima parola pronunciata alla nascita, “mafia” invece di “mamma”. La nostra storia, la nostra coscienza. Un film straordinario e commovente.
Ideato da un sorprendente “Pif”, classe 1972 – quella generazione che, come la mia, ricorda bene i terribili eventi di mafia del 1992 -, questo film è davvero profondo, toccante, un omaggio alle vittime della mafia, diverso e originale perché fa riflettere anche sorridendo, perché smaschera i segreti di un paese in una maniera e stile del tutto diversi da quelli a cui siamo abituati quando si scrive e si parla di malavita organizzata. Qui non ci sono eroi e antieroi, ma al centro vi è il piccolo Arturo, nato accanto alla figlia di Totò Riina, un bambino palermitano innamorato della piccola Flora, che fa di tutto per conquistarla, mentre omicidi e tappe importanti della nostra politica nazionale scorrono, inesorabili, sotto i suoi occhi giovani, increduli e impotenti.
Arturo confessa il suo giovane amore solo a Rocco Chinnici, vicino di casa di Flora, vive tutta un’infanzia circondata da eventi di sangue, incrociando Boris Giuliano, capo della squadra mobile di Palermo, che gli rivela la bontà degli iris ripieni di ricotta, e assistendo involontariamente alle morti dello stesso Chinnici, di Pio La Torre o del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Tutto è visto attraverso gli occhi di due bambini: ogni volta che le cose sembrano andare bene, ogni volta che Arturo sta per dichiararsi a Flora ecco che uccidono qualcuno, scoppia una bomba o bisogna stare incollati alla televisione per seguire qualche grande e conturbante avvenimento.
Arturo ha il mito di Giulio Andreotti, che da un lontano schermo televisivo, confessando di essersi dichiarato alla futura moglie al cimitero, sembra volergli suggerire come conquistare la propria amata. Di lui colleziona immagini e articoli di giornale, ha poster appesi nella cameretta, ne indossa le vesti in abiti da carnevale per i quali viene anche premiato.
Arturo, da grande, vuole fare il giornalista, lo capisce quando vince il concorso indetto da un giornale palermitano e, per un mese, vi scrive articoli. Corre allora in prefettura a intervistare Dalla Chiesa, entrando di soppiatto, e gli chiede: «l’onorevole Andreotti dice che l’emergenza criminale è in Campania e in Calabria. Generale, ha forse sbagliato Regione?». Uscendo, nota l’assurdità di combattere una guerra quando fuori dall’ufficio del Generale vi sono solo due agenti. Non sa che Dalla Chiesa ha rinunciato alla scorta. E invano aspetterà Andreotti al funerale di Dalla Chiesa, non sapendo che il presidente del Consiglio ai funerali preferisce i battesimi, come dichiarerà a un giornalista che gli chiede conto di quell’assenza. Il nostro protagonista cresce e all’improvviso si ritrova sdraiato nel suo letto, ventenne, ora consapevole di quello che sta accadendo intorno a lui. Cade anche Dalla Chiesa, grande lo sconforto quando si comprende che Andreotti non era una buona fonte (…), quando il primo dovere di ogni giornalista è proprio quello di verificare le proprie fonti.
I filmati di repertorio scorrono, la coscienza rivive. Flora è lontana da Palermo, partita per la Svizzera, ma qui la guerra di mafia continua. Arturo decide che Andreotti non è più il suo mito. Il poster che aveva appeso alla parete è caduto insieme alle speranze nell’esplosione che ha travolto il giudice Chinnici, l’unico che, prima di uscire, aveva letto il messaggio d’amore disegnato sull’asfalto per Flora, un cuore che salta, un amore che ancora non viene confessato. Arturo ha capito cosa sta succedendo e con lui l’ha compreso anche Palermo. La scena che raffigura questa nuova consapevolezza è quella dei funerali di Paolo Borsellino, quando, il 24 luglio 1992, l’intera città si riversa davanti alla cattedrale della S. Vergine Maria Assunta per urlare ai politici intervenuti alle cerimonie: «Fuori la mafia dallo Stato!». Emblematica è, poi, la scena in cui un picciotto spiega a Riina come funziona il climatizzatore e la sua accensione. Il boss è così ignorante che il picciotto perde la pazienza. Ma quando Riina preme il pulsante del telecomando davanti alla tv dove si vedono Falcone e Borsellino, si sente un’esplosione: «qualche giorno dopo Totò Riina capì come funziona un telecomando», commenta la voce narrante del regista, la strage di Capaci.
Arturo adulto si divincola fra le difficoltà di trovare lavoro, segue pure la campagna di Salvo Lima, ma solo per amore di Flora, e l’omicidio del politico lo porterà definitivamente a stare dalla parte giusta e a conquistare la donna amata in modo definitivo. Al loro figlioletto cercherà di far capire, passeggiando per Palermo e sfilando davanti a tante lucide lapidi commemorative, chi sono stati gli uomini che hanno lottato contro la mafia, muovendosi tra il drammatico e il comico, con coraggio e grande senso civico ma con la sensibilità e l’incoscienza di un vero poeta.
“La Mafia uccide solo d’estate”, di Pierfrancesco Diliberto (“Pif”), con Pif, Cristiana Capotondi, Ninni Bruschetta, Claudio Gioè, Italia 2013, 90 mn.
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Simonetta Sandri
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