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Ferrara film corto festival

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Non sarà che ci scopriamo tutti migranti in questo mondo del globale, se non altro per via della lingua che parliamo? Disorientati tra il difendere le nostre radici e il desiderio di aprirci sempre di più alle sfide di internet e della globalizzazione, sopraffatti dall’onda crescente e colonizzante del panEnglish?
La mente torna alle pagine della biografia che Canetti fa di sé con La lingua salvata.
Lui che nasce a Rustschuk, in Bulgaria, sul basso Danubio, naturalizzato britannico, sceglie come lingua madre il tedesco, quella lingua che la mamma “con terrore pedagogico” gli impone. Studierà al liceo di Zurigo e a Zurigo morirà.
Noi, che ancora ci muoviamo nell’angustia dei ragionamenti sui vari bilinguismi e su quanto sia opportuno anticipare l’apprendimento delle lingue straniere, non è che ci possiamo rifugiare nel «ma lui è Elias Canetti!» quando dalle sue parole apprendiamo che già alle elementari parla spagnolo, bulgaro, inglese, francese e subito dopo il tedesco.
È vero, il nostro grande paese, un tempo crocevia di culture, oggi è attraversato da leghismi padani, da velleitarie repubbliche da cortile di casa, da migrazioni di lingue e culture che nella nostra pertinace ottusità fatichiamo ad accogliere e comprendere.
La Rustschuk di Canetti, agli inizi del secolo scorso, era un luogo dove vivevano persone di origine diversissima, in un solo giorno si potevano sentire sette o otto lingue, un microcosmo dove circolavano bulgari, turchi, greci, albanesi, armeni, zingari, circassi, rumeni…
Ora anche da noi, se facciamo attenzione, in giro per la città udiamo che il vecchio familiare dialetto sta cedendo il passo ad un moltiplicatore di lingue che non riconosciamo.
Elias Canetti racconta di quando da piccolo, scendendo le scale di casa, dall’appartamento di fronte usciva un uomo sorridente che gli intimava di mostrargli la lingua; e non appena il piccolo Elias la tirava fuori, quello estraeva di tasca un coltellino e diceva: «ora gliela tagliamo». Ma, all’ultimo momento, richiudeva il coltellino con un colpo secco e rimandava il taglio all’indomani.
Non è solo un episodio, lo scherzo di un adulto si trasforma nell’incubo d’un ragazzo che spiega la scelta del titolo La lingua salvata. Perché privarci della nostra lingua è come cancellare la nostra identità, la nostra capacità di pensiero, l’intimità del sentire e degli affetti.
Tove Skutnabb-Kangas, docente all’Università danese di Roskilde e all’Accademia universitaria di Vasa in Finlandia, è conosciuta nel mondo per le sue crociate a favore del riconoscimento dei diritti linguistici umani e per il diritto all’istruzione delle minoranze linguistiche e culturali.
Denuncia che le lingue stanno scomparendo dal pianeta più rapidamente delle specie viventi, in parte, sostiene, a causa della diffusione dell’Inglese. Ma è anche il risultato delle nazioni che non proteggono le minoranze linguistiche e non usano queste lingue come medium dell’istruzione nelle loro scuole.
Contro l’estinguersi delle lingue, e con esse lo scomparire di culture, di tradizioni e di identità, la Tove propone una Convenzione universale dei diritti linguistici umani. In essa afferma che ogni persona ha diritto di identificarsi con la propria madrelingua e vedere questa identificazione riconosciuta e rispettata dagli altri.
Ognuno ha il diritto di apprendere la madrelingua, orale (quando è fisiologicamente possibile) e scritta. In particolare, e questo riguarda soprattutto i figli di prima e di seconda generazione degli immigrati, anche per il nostro paese, di essere istruito prioritariamente attraverso il medium della propria madrelingua, all’interno del sistema scolastico finanziato dallo Stato. Di utilizzare la madrelingua nella maggior parte delle situazioni ufficiali (comprese le scuole). Soprattutto, ogni cambio rispetto alla propria madrelingua, poiché include conoscenze e conseguenze a lungo termine, deve essere volontario e non può essere imposto.
La Tove difende con forza il diritto di tutti i fanciulli a ricevere l’istruzione nella loro madrelingua, divenendo bilingui o trilingui con l’apprendimento della lingua dominante nel paese che li ospita.
Del resto, i dati dell’Ocse sono chiari. Dimostrano che, in generale, la prima generazione dei figli di migranti non raggiunge lo stesso grado di istruzione dei loro coetanei indigeni. Sia per la prima che per la seconda generazione, l’istruzione acquisita dipende dal livello culturale dei genitori.
Per tanto le politiche migratorie dei paesi ospitanti non sono indifferenti, ma incidono sui risultati scolastici dei figli degli immigrati. Dove la selezione di lavoratori stranieri avviene tenendo conto delle necessità del mercato del lavoro, delle qualifiche e dei livelli di istruzione, come in Australia e in Canada, il tasso di preparazione a cui giungono i figli di seconda generazione è circa lo stesso o superiore a quello dei coetanei nativi. All’opposto in Germania, in Belgio e in Italia, dove sono reclutati lavoratori stranieri con basse competenze, i livelli di istruzione raggiunti dalla seconda generazione sono significativamente al di sotto di quelli dei madrelingua.
Secondo i dati Ocse è proprio la lingua a creare lo svantaggio, il non poter studiare e pensare nella propria lingua madre: la lingua è il fattore prevalente che riguarda il rendimento scolastico.
Inoltre, poiché la madrelingua è la lingua del quotidiano, i fanciulli delle famiglie migranti spesso parlano in casa una lingua che è differente da quella del paese ospite.
Noi siamo una nazione con una scuola in teoria attenta alla lingua materna, alla lingua di scolarizzazione e alle lingue europee, ma in pratica molto lontana dall’essere un sistema scolastico plurilingue. Per cui, mentre i ministri dell’istruzione progettano fin dalle elementari lezioni in lingua Inglese, non sono in grado, non solo di procurare i mezzi, ma neppure di pensare a come garantire ai figli degli immigrati il diritto di imparare a scuola per mezzo della loro madrelingua, quella famigliare e di tutti i giorni, come è nel diritto di tutte le bambine e i bambini di questo mondo. Così gli svantaggi per questi fanciulli si moltiplicano e per loro, che hanno il medesimo diritto all’istruzione dei loro coetanei italiani, viene meno il dettato dell’art. 3 della nostra Costituzione, che dovrebbe valere ancor prima di ogni altra disquisizione intorno allo ius soli o allo ius sanguinis.
Eppure è dal 1960 che esiste la Convenzione dell’Onu contro le discriminazioni nell’istruzione. All’art. 5 fornisce una chiara protezione delle minoranze culturali e linguistiche, a partire dai fanciulli migranti. L’Unesco, nel 1999, ha istituito la Giornata internazionale della madrelingua del 21 febbraio.
Ma, evidentemente, anni di governi ignoranti e di leghismi intellettualmente asfittici hanno finito con ottundere le menti di questo nostro paese e rendere cronica la sua miopia.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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