“Per la lingua si langue,” recita uno dei più antichi proverbi italiani, testimoniato già dallo scrittore seicentesco Giulio Varrini. Insomma, a parlare troppo si rischia di parlare a sproposito e si finisce col dire stupidaggini. Dovremmo prendere questo proverbio alla lettera per descrivere il goffo scambio di battute tra il primo ministro israeliano Benjamin Netaniayhu e Papa Francesco: a parlare a sproposito della lingua (di Gesù) si finisce per dire stupidaggini. E infatti così è stato.
Tutte le agenzie di stampa hanno riportato nei giorni scorsi uno scambio di battute tanto breve quanto fulminante:
“Gesù era su questa terra e parlava ebraico” – ha detto Netanyahu;
“Aramaico” – l’ha corretto Papa Francesco;
“Parlava aramaico ma conosceva l’ebraico” – ha concluso Netanyahu.
Se non fosse per i due illustrissimi interlocutori, difficilmente una simile disputa teologica in miniatura troverebbe ospitalità nei maggiori quotidiani del mondo ma più verosimilmente rischierebbe di appassionare solo “un pio, un teorete, un Bertoncelli e un prete” – e anche il sottoscritto che non appartiene a nessuna di queste categorie.
Eppure non dovrebbe sorprendere che sia stato proprio l’altrimenti non troppo sottile primo ministro israeliano Netanyahu a sollevare una simile questione proprio di fronte ad un interlocutore così illustre, tra l’altro non sorprendentemente assai meglio informato di lui.
Quindi, perché mai intavolare un discorso simile, con una simile evidente sproporzione di forze intellettuali?
Tralasciando plausibili spiegazioni come la stupidità o l’insipienza, potremmo arrischiarci ad ipotizzare che il primo ministro israeliano tentasse di fare politica. Più precisamente di retrodatare di duemila anni il suo sionismo nazionalista.
La questione della lingua di Gesù infatti non è linguistica ma politica.
Non c’è quasi bisogno di ricordare che nella Palestina di duemila anni fa, sotto dominazione romana, si praticassero almeno quattro lingue principali: il greco (come lingua dell’amministrazione), il latino (come lingua politica del dominatore straniero), aramaico giudaico palestinese (parlato dal popolino) e anche l’ebraico post-biblico (conosciuto e forse anche parlato dall’élite intellettuale giudaica). Una ricchezza linguistica splendidamente descritta dallo scrittore Bulgakov nel sontuoso micro-racconto su Gesù all’interno del celebre Il Maestro e Margherita.
Le numerose lingue nella Palestina romana di duemila anni fa non sono un problema. Ciò su cui gli studiosi dibattono è la diffusione dell’ebraico come semplice lingua scritta oppure anche come lingua parlata. Infatti, se è indubbio che l’ebraico post-biblico venisse sicuramente praticato come lingua scritta, non è chiaro se questo fosse anche una lingua parlata e, se effettivamente lo era, se venisse usata come lingua quotidiana, come lingua dell’élite intellettuale oppure (probabilmente l’ipotesi più verosimile) esclusivamente come lingua liturgica. Insomma, una condizione assai simile a quella degli ebrei ortodossi americani odierni, che parlano quotidianamente lo yiddish (e l’inglese) ma che non parlano l’ebraico che considerano una lingua santa e che destinano solo all’uso consacrato: liturgia e lettura dei testi religiosi.
La questione infatti non è che lingua parlasse Gesù bensì per quale motivo Netanyahu pensi che l’ebraico dovesse essere la lingua che Gesù parlava quotidianamente.
La prima ipotesi (“Gesù era su questa terra e parlava ebraico”) non reclama alcuna paternità ebraica su Gesù bensì fa di Gesù una sorta di un prototipo sionista: un ebreo che parlava ebraico già nella Terra di Israele di duemila anni fa. Si tratta tuttavia di una “pia illusione,” nel senso proprio del termine: la proiezione di aspettative sioniste in un passato di duemila anni fa.
La seconda ipotesi (“Parlava aramaico ma conosceva l’ebraico”) è plausibile ma presuppone sempre che ci sia una continuità tra l’ebraico post-biblico di duemila anni fa e l’ebraico moderno, parlato attualmente in Israele.
Alcuni autorevoli linguisti israeliani (Shlomo Izreel e Gilad Zuckermann) polemizzano con questa idea e ne denunciano gli aspetti non troppo velatamente ideologici. NOn a caso chiamano l’ebraico moderno ivrit chadash, “neo-ebraico,” oppure ivrit israelit, “ebraico israeliano.” L’ebraico moderno, dunque, non sarebbe infatti nemmeno più una lingua semitica come i suoi numerosi predecessori (ebraico biblico, ebraico post-biblico, aramaico) bensì un mishmash, un “guazzabuglio,” una lingua ibrida, nata dall’incrocio di più lingue: una sorta di di yiddish postmoderno, dalla sintassi e dalla grammatica slava-indoeuropea e da un tono e un vocabolario velatamente semiti.
Se Netanyahu fosse pronto a riconoscere almeno in parte queste rivendicazioni di noiosissimi nonché autorevoli linguisti forse potrebbe riconoscere, con ciò, la complessità etnica e culturale dell’Israele d’oggi. Magari la sua politica potrebbe avere un altro corso. Ma, appunto, “per la lingua si langue.”
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Federico Dal Bo
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