Dai cieli fiscali promessi dai partiti alla dura realtà di uno scontro sociale tra accoglienza e rifiuto
Mi ero proprio dimenticato di una città di nome Macerata, tanto piccola quanto decentrata. Proprio questo lembo periferico della penisola ha conquistato in questi giorni gli onori della cronaca e deviato, di un poco e non so per quanto tempo, una battaglia elettorale tutta basata sulle promesse fiscali dei vari schieramenti e in particolare dei populisti di vecchio stampo o di nuovo conio.
Alle astronomiche promesse, lo dice anche un recente sondaggio, non crede davvero più nessuno; anzi, quelle decine o centinaia di miliardi che tutti, se vincitori, ci vogliono assolutamente versare nelle tasche hanno qualcosa di surreale. Segno forse che il populismo, a forza di alzare la posta, ha perso il senso della misura e molta credibilità. Era molto più concreto ed efficace Achille Lauro: consegnava una scarpa destra e, solo dopo il voto, la scarpa gemella per il piede sinistro.
Se le promesse elettorali sono surreali, le pallottole non lo sono per nulla: sono di piombo e se ti colpiscono possono mandarti all’altro mondo. Così, il raid di Macerata del (pazzo?) ex candidato di Salvini e cultore appassionato di Hitler, Mussolini e altre frattaglie fasciste, ha spostato il fuoco della battaglia tra i partiti. Dai cieli fiscali alla dura realtà delle nostre strade e delle nostre piazze.
Nei commenti e nelle reciproche polemiche tra i vari leader è rispuntato fuori il tema del fascismo. Se cioè occorra o meno una nuova legge che – oltre al netto divieto stabilito dal nostro testo costituzionale – ponga un argine efficace al fenomeno di un risorgente nazismo e fascismo. E ancora: i nuovi gruppi e gruppuscoli della destra estrema, Casa Pound in testa, sono gli eredi diretti del fascio littorio oppure costituiscono una realtà affatto nuova, figlia delle periferie degradate e impoverite e degli intrecci tra mafie ed estremismi?
Il tema è interessante, se ne potrebbe discutere per ore, ma dietro al ‘tiro all’emigrato’ di Macerata e a una miriade di altri episodi di intolleranza, il fascismo – vecchio o nuovo che sia – c’entra forse solo di striscio, sembra essere solo una maschera, un modo estremo e criminale per combattere una battaglia molto più vasta. Una battaglia in atto nel nostro Paese ormai da qualche anno, che non coinvolge solo minoranze militanti (e militari), ma che riguarda il cuore stesso del nostro vivere sociale.
Accoglienza o rifiuto, solidarietà o chiusura, dialogo o difesa dell’egoismo identitario. E’ su queste parole, su questi comportamenti che in ogni città, in ogni quartiere, in ogni piazza si sta combattendo la battaglia. Il suo esito appare ancora incerto – neppure queste elezioni potranno dare una soluzione definitiva in un senso o nell’altro – e almeno per il prossimo decennio saremo costretti bene o male a prendere posizione. E non basterà scandalizzarsi per il candidato governatore Fontana che si proclama difensore della razza bianca, o irridere al “Prima gli Italiani” ossessivamente ripetuto da Giorgia Meloni. Non basterà cioè prendere le distanze dalle parole estreme e stigmatizzare questo o quell’episodio di razzismo o squadrismo.
Forse qualcuno pensa che possiamo cavarcela come semplici spettatori. Come se fossimo appena usciti da un film e ci venisse chiesto che ne pensiamo di questa o quella scena. Potere della televisione e della rete! Invece nel film – cioè dentro la battaglia che segnerà il volto della nostra società di domani mattina– ci siamo anche noi. Tra i protagonisti. O tra gli sconfitti.
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Francesco Monini
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